Dire Dio oltre le nostre certezze

Dire Dio oltre le nostre certezze

La sfida dei fondamentalismi, i missionari, le verità imparate dai poveri: parla padre Timothy Radcliffe, grande teologo inglese domenicano, che il 24 ottobre porterà la sua testimonianza al Centro Pime di Milano

«La fede? È una ricerca e un viaggio che non finiscono mai, l’esatto opposto delle certezze semplici offerte oggi da tutte le forme di fondamentalismo». Da quando nel 2001 ha terminato il suo mandato come Maestro generale dell’ordine, vive nella comunità dei domenicani dell’Università di Oxford padre Timothy Radcliffe. La sua parola brillante e insieme profonda, però, lo porta lo stesso in giro per il mondo, in quel ministero della predicazione che è un marchio di fabbrica della sua famiglia religiosa. Ma in un mondo come quello di oggi, dove i fondamentalismi snocciolano le loro verità, che cosa significa annunciare Gesù Cristo? È su questo tema che padre Radcliffe parlerà mercoledì 24 ottobre al Centro missionario Pime di Milano, nell’ultima delle serate dell’Ottobre missionario 2018. Ed è proprio da qui che partiamo anche in quest’intervista a Mondo e Missione.

Padre Radcliffe, qual è secondo lei la forma di fondamentalismo più pericolosa oggi? E come rispondere da cristiani?

«Il fondamentalismo permea tutta la modernità. Si tratta di quella tendenza a vedere ogni cosa con lo sguardo riduttivo di un unico punto di vista, guidati da una maniera sola e semplice di descrivere il mondo. Il fondamentalismo scientifico pretende che l’unica verità sia quella della scienza; il fondamentalismo economico guarda agli esseri umani come se fossimo solo consumatori o venditori; e poi ci sono il fondamentalismo nazionalista, quello religioso… Sono tutti sintomi della stessa spinta a cercare di descrivere la realtà nei termini di una singola prospettiva. Forse oggi il populismo – che è un’altra forma di fondamentalismo, di tipo politico – è il volto più pericoloso in Europa perché è rapido nell’identificare gli stranieri come pericoli. Ma la fede in Gesù scardina ogni fondamentalismo, perché noi cerchiamo una verità che si trova sempre oltre le nostre parole. Non a caso ci avviciniamo a questa verità attraverso quattro Vangeli, non uno solo. Abbiamo bisogno della poesia e dell’arte per guardare dentro al mistero».

«Amerai il prossimo tuo come te stesso», dice il Vangelo. Chi è il nostro prossimo nell’Europa arrabbiata di oggi?

«Lo straniero che arriva da lontano, ma anche la persona che ha paura dello straniero. La reazione all’immigrazione sta dividendo le società europee. Siamo incapaci di parlare di questo tema con rispetto e attenzione reciproca. Io credo al fatto che se accoglieremo lo straniero in casa nostra ne saremo arricchiti. Ma devo provare a capire anche chi ha paura dei migranti e le sue insicurezze. Accogliamo gli stranieri in casa nostra, ma dobbiamo essere vicini anche a chi si sente lasciato indietro in queste nostre società. A quelli che non vedono alcun futuro e non si sentono a casa».

Da Maestro generale dei domenicani – e anche in questi ultimi anni – lei ha incontrato molti missionari nel Sud del mondo. Quale di questi incontri l’ha colpita di più e perché?

«Sono rimasto toccato molte più volte di quelle che potrei raccontare… Ma ricordo soprattutto le mie visite in Algeria e in Iraq. Sono stato in Iraq per due settimane prima di Natale e sono rimasto sbalordito dal lavoro delle suore domenicane che insegnano nei nostri istituti. La loro risposta è la migliore possibile al fondamentalismo: insegnare alla gente a pensare. Quando vedo cristiani e musulmani seduti l’uno accanto all’altro in amicizia, imparando insieme, in quel momento spero davvero che un nuovo Iraq possa essere nato».

Cosa direbbe a un missionario che si appresta a partire per vivere e predicare il Vangelo in luoghi dove i cristiani sono una minoranza in mezzo ad altre comunità o dove la persecuzione non è affatto un’eventualità remota?

«Uno dei miei confratelli dice che il missionario non è l’uomo che non disfa mai la valigia; il missionario la valigia l’ha proprio buttata via. Di solito i missionari non partono con grandi progetti in testa su quanto dovranno fare. Aspettano di scoprire ciò che sarà loro chiesto, come veri servi. Certo, il dialogo interreligioso è sempre una priorità: con le persone delle altre fedi non dobbiamo pretendere di credere le stesse cose. Le differenze sono belle. Credo che dobbiamo offrire le ricchezze della nostra fede con fiducia e accettare i doni degli altri con umiltà. Nutro la più grande ammirazione per i missionari che partono per posti pericolosi. Li ho spesso visitati anch’io, ma non mi sono mai fermato per lunghi periodi. Quando i monaci trappisti furono uccisi in Algeria andammo a visitare i nostri confratelli che vivevano là; dicemmo loro che li avremmo sostenuti sia se fossero rimasti sia se avessero scelto di partire. Potevano decidere liberamente. Fui contento nel sentire che scelsero tutti di rimanere, compreso Pierre Claverie, il vescovo di Orano mio confratello che poi sarebbe morto anche lui martire. Quando gli chiesero perché rimaneva rispose che l’Algeria veniva crocifissa e noi dovevamo rimanere ai piedi della croce, come Maria e il discepolo prediletto. Solo rimanere lì».

L’arcidiocesi di Milano sta vivendo un Sinodo sul tema “Chiesa dalle genti” dedicato al contributo specifico degli immigrati cristiani provenienti da altri continenti nelle nostre comunità. A partire dalla sua esperienza in Gran Bretagna come vede questa sfida?

«Blackfriars, la mia comunità, fa parte dell’Università di Oxford e così molti degli stranieri che incontro là sono studenti o docenti, quindi non i tipici immigrati delle grandi città come Londra. La nostra Messa domenicale è piena di gente proveniente da tutto il mondo. Siamo una comunità locale, molto impegnata nell’insegnamento e nello studio, ma anche un’espressione di quella comunità universale che è la Chiesa. Proprio questa combinazione di locale e globale ci dice qualcosa di importante sul nostro essere cristiani. Apparteniamo a una piccola comunità di persone di cui conosciamo i volti e i nomi, ma anche alla grande comunità della Chiesa, fatta di santi e peccatori, di vivi e di morti. La nostra comunità ha poi adottato una famiglia di musulmani siriani: i legami di amicizia che si sono creati sono molto belli. Abbiamo anche il Boat – Blackfriars Overseas Aid Trust – che offre aiuto alle comunità nei Paesi del Sud del mondo. Quest’anno la nostra priorità è per le suore domenicane dell’Iraq, che sono davvero diventate parte della comunità, dei nostri cuori e delle nostre menti».

Papa Francesco non si stanca di invitare la Chiesa ad ascoltare la voce dei poveri. Cosa dice questa chiamata a un teologo oggi?

«Ho visitato molti posti segnati dalla guerra e dalla povertà, ma sono ben consapevole di vivere ad Oxford, in un luogo privilegiato quanto a ricchezza e sicurezza. A volte rimpiango il fatto di non vivere in mezzo a persone che soffrono davvero la povertà, perché lo so che hanno molto da insegnarmi. Prima di tutto la gratitudine. Mi ricordo di essere stato accolto in un barrio violento di Bogotá, in Colombia, da una donna di nome Maria. La sua casa era giusto un pezzo di lamiera incastrato in una roccia, eppure mi ha accolto come se fossi arrivato al Castello di Windsor. Una donna piena di gratitudine per ciò che aveva ricevuto anche se in fondo non possedeva quasi nulla. E poi la speranza. Nel libro di Osea il Signore dice: “Condurrò Israele in un luogo selvaggio e là le parlerò con tenerezza”. Spesso in questi posti segnati dalla guerra o dalla povertà ho trovato fratelli e sorelle che vivevano con una speranza gioiosa che non siamo più capaci di gustare nel mondo dell’abbondanza. Nel 1988 ricordo di aver trascorso una notte insonne a Bagdad, aspettando un bombardamento dell’aviazione americana e inglese. La mattina dopo ho chiesto al mio confratello Yussuf Mirkis, oggi arcivescovo di Kirkuk, se fosse riuscito a dormire. Mi rispose: “Se vivi accanto alla morte per così tanto tempo, la domanda non è più se morirai o no, ma la tua fede nella Resurrezione”. Le piccole preoccupazioni vengono spazzate via».

In questo mese di ottobre i vescovi di tutto il mondo si riuniranno a Roma per il Sinodo sui giovani. Cosa spera che emerga da questo appuntamento?

«Ho trascorso il mese scorso in Australia, tenendo conferenze a centinaia di insegnanti che mi hanno parlato molto delle loro speranze e delle loro paure riguardo ai giovani. Prima di tutto dobbiamo avere fiducia nei giovani. San Domenico si fidava dei suoi giovani novizi e li mandava a predicare anche quando avevano a malapena iniziato la loro vita nell’ordine. Sant’Agostino diceva che siamo cresciuti vecchi e che il nostro Dio è più giovane di noi. Quindi la fiducia nei giovani deve essere una caratteristica del cristianesimo. Non dobbiamo chiedere loro di essere come noi, di prendere il nostro posto e fare ciò che facciamo noi. Sono una nuova generazione e quindi saranno diversi. Io spero che il Sinodo consegni ai giovani una grande sfida, quella di seguire Cristo. Il cristianesimo non è una religione facile e tranquilla: ci invita ad assumere dei rischi. Un altro dei miei confratelli, padre Herbert McCabe, ama dire: “Se ami sarai ferito e potrai anche morire. Ma se non ami sei già morto”. La nostra società ha paura di rischiare. Siamo diventati timidi. Spero che il Sinodo invece incoraggi i giovani a fare qualcosa di folle per Cristo».