Libano: il grido dei rifugiati

Libano: il grido dei rifugiati

Strenuo difensore dei diritti umani e delle minoranze in India, il gesuita padre Cedric Prakash racconta la sua nuova vita fra i rifugiati in Medio Oriente, in una delle zone più “calde” del mondo

 

«Il mese scorso, in Giordania, ho visitato il monte Nebo, dal quale si dice che Mosè abbia visto da lontano la Terra promessa. La sua speranza, il suo sogno non si sono mai concretizzati. Ogni singola persona rifugiata o sfollata che ho incontrato in questi mesi vive nella speranza di poter fare ritorno, un giorno, al luogo che una volta chiamava “casa”, per condurre una vita normale, libera e dignitosa; quando ciò non è possibile, vorrebbe almeno vivere in un Paese dove ci siano accoglienza, sicurezza e rispetto dei propri diritti. Nell’ultimo anno ho ascoltato le sofferenze di molti rifugiati provenienti dalla Siria e dal Sudan, da parti dell’Iraq e dalla Somalia, e di altre nazioni ancora. Le loro storie stanno scolpendo la mia vita. Il loro pianto, le loro preghiere hanno acceso in me una grande inquietudine e il desiderio di fare tutto ciò che posso».

Cedric Prakash, 66 anni, è un gesuita indiano conosciuto in tutto il mondo per la sua attività in difesa dei diritti umani. Nato a Mumbai nel 1951, ha operato per ben 42 anni nello Stato indiano del Gujarat, dove ha fondato nel 2001 il Centro per i diritti umani, la giustizia e la pace Prashant. Non ha avuto remore nell’esporsi e nel denunciare i fondamentalismi, a tutela di qualsiasi minoranza etnica o religiosa. Nel 2002, ha rischiato la vita per aiutare le vittime musulmane delle stragi compiute dai fondamentalisti indù e costate la vita a oltre duemila persone. Non ha risparmiato critiche al primo ministro Narendra Modi, che al tempo delle stragi era capo di Stato in Gujarat, accusandolo di «essersi voltato dall’altra parte». Insieme a un’ampia coalizione di organizzazioni non governative e gruppi della società civile, ha guidato la protesta contro la legge anti-conversioni introdotta nel 2003 (The Gujarat Freedom of Religion Act) che viene usata in modo pretestuoso da fondamentalisti e gruppi xenofobi contro le minoranze. Pur essendo un sacerdote, nei 42 anni di attività in India ha lottato per una società laica, in cui ogni comunità possa essere rispettata e vivere la propria fede. Oggi padre Prakash ha cambiato completamente vita, ma non ha abbandonato le sue convinzioni e la lotta per i diritti umani.

Dal gennaio 2016 vive a Beirut, dove ha accettato «una nuova chiamata» all’interno del Jesuit Refugee Service (Jrs) per il Medio Oriente e il Nord Africa, l’organizzazione dei gesuiti che assiste i rifugiati in una delle aree più “calde” del mondo.

«L’esodo al quale assisto da quando sono qui è enorme – esordisce – . Quasi cinque milioni di rifugiati siriani vivono in Libano, Turchia, Giordania, Iraq ed Egitto. In questi Paesi ci sono anche rifugiati dal Sudan, dalla Somalia, dallo Yemen, dall’Afghanistan e dalla Palestina. Inoltre, all’interno della stessa Siria e dell’Iraq ci sono diversi milioni di sfollati. I Paesi ospitanti stanno certamente facendo quello che possono, ma non è facile, la situazione è davvero critica».

Il Jrs per il Medio Oriente e il Nord Africa opera in cinque Paesi: Libano (dove ha anche il suo quartier generale), Siria, Giordania, Iraq (solo nel Kurdistan) e Turchia. «In questi Paesi i rifugiati non vengono accettati facilmente – afferma padre Prakash -. In alcuni luoghi diventano facile bersaglio di comportamenti xenofobi e razzisti. La maggior parte non ha un permesso di soggiorno e può solo lavorare in nero nel settore agricolo e nell’edilizia. I bambini non hanno accesso alle scuole e all’istruzione e le famiglie vivono in case poverissime dove mancano i principali servizi, come l’acqua e l’elettricità, per di più devono pagare un affitto alto per questi alloggi terribili».

A Beirut, all’interno del Jrs, padre Prakash si occupa della comunicazione e della tutela e promozione dei diritti dei rifugiati: «Lo facciamo in diversi modi – spiega -. Facciamo sapere la realtà in cui vivono queste persone, sensibilizzando l’opinione pubblica e i media; lavoriamo con altri gruppi e organizzazioni della società civile che rappresentano in modo efficace e concreto i diritti dei rifugiati in forum importanti; informiamo gli stessi rifugiati in modo che siano consapevoli dei loro diritti. Il lavoro da fare è immenso e i bisogni sono certamente molti. Ma più di tutto, i rifugiati sono assetati di dignità, hanno bisogno di essere trattati come esseri umani, di accettazione e inclusione, il che, tra l’altro, è un loro diritto. Queste persone sono state costrette ad abbandonare i propri Paesi e cercano semplicemente soluzioni per vivere una vita normale».

Il trasferimento dall’India al Medio Oriente di questo famoso difensore dei diritti umani, che si era attirato con le sue critiche duri attacchi da parte dei fondamentalisti indù, ha dato adito a illazioni.

«Ho dovuto spiegare che non sono stato “mandato via” o promosso ad altro incarico per togliermi di mezzo – sottolinea padre Cedric -. La verità è che ho risposto a quella che ho avvertito come una chiamata di Dio. Ho sempre avuto una grandissima ammirazione per padre Pedro Arrupe, il gesuita che nel 1980 ha fondato il Jesuit Refugee Service, e nel mio cuore c’è sempre stato il desiderio di dare un contributo a questa attività con i rifugiati, ma ho sempre pensato a un breve periodo, di qualche settimana. Invece, nella quaresima del 2015, durante gli esercizi spirituali della Settimana Santa, ho sentito una chiamata a una scelta più radicale, e l’urgenza di rispondervi. Dopo un lungo e sofferto discernimento ho deciso di accettare la proposta del Jrs del Medio Oriente, dove c’era un estremo bisogno. Anche se è stato difficile lasciare l’India, non me ne sono pentito».

Il centro dei gesuiti a Beirut aiuta sia cristiani che musulmani, «ma anche gente di cui non sappiamo nulla, la religione non è un elemento discriminante – sottolinea padre Cedric -. Noi serviamo ogni essere umano, in particolare chi ha più bisogno. A Erbil, nel Kurdistan iracheno, lavoriamo con parecchi cristiani sfollati, ma anche con gli yazidi e con rifugiati che arrivano da altre aree della regione. La nostra spiritualità si basa su ciò che Gesù ci ha insegnato: “Quello che fate al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me”».

In Medio Oriente e Nord Africa il Jrs è coinvolto in un ampio raggio di attività per i rifugiati e gli sfollati, che ruotano attorno a tre dimensioni collegate fra loro: servizio, accompagnamento e promozione dei loro diritti. Oltre a fornire aiuti di prima necessità, come kit alimentari e sanitari alle famiglie più bisognose e all’assistenza psico-sociale, il Jrs è impegnato sul fronte dell’educazione dei bambini (principalmente pre-scuola, educazione primaria e recupero scolastico), ma anche dei giovani, per i quali organizza corsi di formazione professionale, e degli adulti, per aiutarli a inserirsi nel mondo del lavoro.

La difesa e la promozione dei diritti umani dei rifugiati sono presenti in modo trasversale in ogni attività. «Come Jrs, crediamo che ogni essere umano sia creato a immagine e somiglianza di Dio, al di là della religione che professa – spiega padre Cedric -. Vediamo la “persona”, con tutta la sua dignità, in chi è costretto a lasciare la propria casa e ha più bisogno di noi, e cerchiamo di dare una risposta. Questo è ciò che Gesù vorrebbe che facessimo nel contesto di questa grande crisi dei rifugiati, che riguarda tutto il mondo».

Essere sacerdote nel contesto tumultuoso del Medio Oriente non è facile. «In India la situazione era molto diversa – dice padre Prakash -. Ero esposto in prima linea sul fronte dei diritti umani. Ero molto visibile e impegnato in molte piattaforme per i diritti dei poveri, dei marginalizzati e delle minoranze; qui devo giocare un ruolo più sottotraccia e delicato, per ovvie ragioni. Sono tuttavia convinto di stare vivendo la mia vocazione sacerdotale in un modo molto significativo. Papa Francesco ci ricorda che i “sacerdoti devono essere dei veri pastori con addosso l’odore delle pecore”. Questo può accadere solo quando si è nel mezzo della sofferenza e del dolore delle persone, in questo caso dei rifugiati. In molti piccoli modi faccio del mio meglio per ascoltarli e rispondere al loro grido».