Lahore la Pasqua più difficile

Lahore la Pasqua più difficile

Un anno dopo l’attentato che colpì il parco Gulshan-e-Iqbal, una nuova Pasqua di tensione per la maggiore comunità cattolica del Nord del Pakistan. Che non rinuncia a vivere la sua fede

 

Uno dei grandi limiti dell’informazione oggi è archiviare tutto terribilmente in fretta. Una storia scaccia l’altra, c’è sempre una nuova emergenza a cui guardare. E allora può accadere che persino una Pasqua sfregiata da un attentato devastante in un parco pubblico affollato di famiglie, se accade dall’altra parte del mondo, si trasformi in materiale buono solo per una scheda sui “precedenti” di un nuovo attacco. Eppure è successo appena dodici mesi fa a Lahore in Pakistan: era il tardo pomeriggio del giorno della festa dei cristiani quando al parco Gulshan-e-Iqbal, il luogo preferito di ritrovo per le famiglie, un attentatore suicida si è fatto esplodere seminando morte proprio nel giorno della celebrazione della vita. Furono 78 i morti e oltre 300 i feriti; cristiani e musulmani insieme, perché l’esplosivo non conosce le distinzioni dell’odio fanatico.

Ma quella Pasqua – ai cristiani di Lahore – aveva richiamato subito alla mente altre esperienze drammatiche; come ad esempio quella vissuta ancora l’anno prima, quando il 15 marzo – quarta domenica di Quaresima nel 2015 – un altro attentato aveva colpito la parrocchia cattolica di San Giovanni e l’evangelica Christ Church nel quartiere di Youhannabad. In quell’occasione il bilancio dei morti si fermò a 20 persone solo perché un giovane ex allievo salesiano, il ventenne Akash Bashir, si gettò contro l’attentatore, impedendogli di entrare in chiesa. Così oggi il suo parroco ha chiesto all’arcivescovo Sebastian Shaw di aprire il processo canonico per il riconoscimento del martirio.

Vale dunque la pena chiedersi: con queste storie alle spalle come si sta preparando la comunità di Lahore a vivere la Pasqua 2017? «Il clima resta teso – ci risponde dal Pakistan padre Juan Carlos Pallardel, gesuita originario del Perù, da tre ormai al servizio di questa comunità -. Proprio poche settimane fa ci sono stati nuovi attentati in diverse zone del Paese (uno proprio nel centro di Lahore davanti alla Punjab Assembly mentre era in corso una manifestazione: 14 persone sono rimaste uccise – ndr). Condividiamo la preoccupazione di gran parte della popolazione pachistana, anche se le misure di sicurezza per questa Pasqua sono state rafforzate dal governo. La paura è maggiore nelle aree più povere, dove la gente si sente più indifesa: è una Passione che continua. Ma questo non spegne la fede dei cattolici di Lahore. Lo si vede in questi venerdì di Quaresima quando i fedeli si riuniscono nelle chiese per celebrare la Via Crucis, un appuntamento qui sempre molto sentito».

Con i suoi undici milioni di abitanti, Lahore è la seconda città del Pakistan. Una città dalla lunga storia, come testimoniano i sontuosi edifici fatti costruire dagli imperatori moghul nel XVII secolo. Tra di essi l’imponente moschea Badshahi, rimasta per oltre trecento anni la più grande al mondo, in grado di contenere anche 100 mila fedeli insieme in preghiera. Ma Lahore è anche la più popolosa tra le diocesi cattoliche del Pakistan, con i suoi 450 mila fedeli. Obiettivo fin troppo facile per i gruppi jihadisti che hanno le loro basi in Afghanistan, ma evidentemente possono anche contare in città su connivenze importanti.

Va aggiunto che, peraltro, i cristiani non sono i soli ad essere colpiti dalla violenza jihadista in Pakistan: molti ad esempio anche gli attacchi compiuti contro i santuari dove i sufi venerano le tombe dei loro sapienti. Il più grave è avvenuto nel mese di febbraio a Sehwan, nel Sud del Paese: in quel caso i morti sono stati addirittura 90. Fedeli colpevoli di fare quanto i musulmani pachistani hanno sempre fatto: recarsi con devozione in pellegrinaggio per chiedere ai santi dell’islam la loro intercessione per un buon lavoro o per la nascita di un figlio. Gesti intrisi della spiritualità sufi – con il suo stile di vita semplice e gli insegnamenti di generosità verso i poveri, di perdono, riconciliazione e distacco dai beni terreni – divenuti oggi inaccettabili per i predicatori wahhabiti che, a suon di petrodollari dell’Arabia Saudita e del Golfo Persico, hanno provato a cambiare negli ultimi decenni il volto dell’islam di questo Paese.

Del resto, le tombe in cui loro si riconoscono sono altre: per esempio il mausoleo dove a Islamabad è sepolto Mumtaz Qadri, la guardia del corpo divenuta nel gennaio 2011 l’assassino del governatore del Punjab Salman Taseer, il politico musulmano che aveva preso le difese di Asia Bibi, donna cristiana in carcere da più di sette anni con un’accusa di blasfemia basata solo sulla parola molto dubbia di alcuni testimoni.

Al termine di un lungo iter giudiziario, il 29 febbraio 2016 è stata eseguita la condanna a morte di Qadri; così oggi i movimenti radicali pachistani lo considerano un martire. A un anno di distanza è dovuto intervenire il governo locale del Punjab per impedire che avvenissero cortei celebrativi in sua memoria. E già in gennaio a Lahore la polizia aveva arrestato 110 imam che nel giorno dell’anniversario della morte di Taseer inneggiavano pubblicamente al suo assassino.

Il Punjab di oggi, però, non è comunque solo questo. Ci tiene a sottolinearlo padre Pallardel, che a Lahore è stato inviato dai gesuiti proprio per dedicarsi al dialogo interreligioso. «Il Paese si trova davanti a un bivio – spiega -. Può darsi che la situazione precipiti ancora di più, ma ci sono anche segnali che fanno sperare in un futuro migliore. La nostra scuola dei gesuiti si trova poco lontano dal Gulshan-e-Iqbal; tante delle famiglie dei ragazzi – anche musulmani – hanno avuto un parente o un amico colpito nella strage. Tra le persone che incontro c’è tanta stanchezza per queste violenze, vorrebbero liberarsi dalla paura. Il punto vero, però, è affrontare le questioni sociali che continuano ad affliggere la società pachistana: povertà, criminalità, corruzione, discriminazioni legate ai diversi gruppi etnici. Anche molte delle discriminazioni quotidiane che i cristiani stessi subiscono sono legate a una radice culturale. Alla fine sono sempre i meccanismi di casta all’opera; nei loro confronti si rivestono anche di una connotazione religiosa, ma se si va a vedere bene poi colpiscono anche i musulmani di quello stesso gruppo. Ed è una situazione che lascia irrisolta la vera questione: la distribuzione della ricchezza in questo Paese».

Nonostante le minacce e le discriminazioni promosse dai fondamentalisti, dunque, anche quella di Lahore è una Pasqua di risurrezione a partire dall’incontro con l’altro. Un esempio eloquente è la storia di Muhammad Akram, della Youth Development Foundation, un’associazione che in Pakistan riunisce giovani di confessioni diverse. Nel 2005 aveva appena quindici anni – ha raccontato ad AsiaNews – quando si unì alla folla che aveva attaccato il villaggio cristiano di Sangla Hill, sempre nella diocesi di Lahore, dove un cristiano locale, Yousuf Masih, era stato accusato di aver bruciato pagine del Corano. L’accusa si rivelò poi falsa, come quasi sempre avviene; ma l’assalto della folla islamista lasciò comunque dietro di sé fiamme in tre chiese, un convento di suore, due scuole cattoliche, le case del parroco e del pastore, un ostello per ragazze e un dispensario, oltre che nelle abitazioni di alcune famiglie. Ora, però, grazie all’incontro con la Youth Development Foundation, Muhammad ha capito l’assurdità di tutto questo. Ed è impegnato in prima persona in attività di sensibilizzazione sul tema della tolleranza e dell’impegno sociale. «Le persone hanno trasformato l’antagonismo religioso in un commercio – denuncia oggi l’ex ragazzino islamista -. Si fanno grandi profitti e si riescono ad attrarre molti sostenitori in breve tempo».

Di una resurrezione a Lahore – per di più annunciata proprio dalle donne come quella di Gesù – parla infine anche il progetto del Crisis Intervention Center promosso dalle Suore del Buon Pastore e sostenuto in Italia dall’Aiuto alla Chiesa che Soffre. È un centro che accoglie ragazze adolescenti e donne che si trovano in grave difficoltà per situazioni di povertà o pregiudizio; tra loro anche ragazze madri che al Centro trovano un luogo dove fuggire dalla discriminazione e dalle minacce di morte per ritrovare la propria dignità di persone. Le Suore del Buon Pastore offrono assistenza legale e psicologica a queste donne oltre a valorizzare le capacità di ciascuna, in modo da permettere loro di ricostruirsi una vita.

L’anno scorso sono state in 62 a beneficiare di questa struttura, dove solitamente si fermano per non più di sei mesi. «In una società dove la dignità e i diritti delle donne non sono molto riconosciuti e rispettati – hanno scritto le suore in una lettera ad “Aiuto alla Chiesa che soffre” – il nostro Centro funziona come un luogo di protezione e mediazione, portando la Buona Notizia alle afflitte, proclamando la liberazione delle prigioniere e risanando chi ha il cuore spezzato, come ci insegna il Vangelo di Gesù».