Famiglie invisibili a cavallo tra due mondi

Famiglie invisibili a cavallo tra due mondi

In Italia il dibattito sociale dà molta enfasi ai diritti di genitori  e figli, dimenticando però troppo spesso le fatiche vissute dalle famiglie immigrate. Ma anche le risorse che custodiscono

 

Convegni dalla notevole risonanza pubblica dedicati alla famiglia, scontri politici sui requisiti delle unioni matrimoniali, dibattiti accesi sui diritti dei genitori e quelli dei minori. Italiani, si intende.

Perché «quando si discute di famiglia, sul piano politico, etico e anche religioso, si pensa sempre alle famiglie autoctone, e raramente si prendono in considerazione quelle immigrate, tantomeno quelle separate dai confini e dalle politiche migratorie. Così «i diritti dei minorenni, come quello di vivere con i genitori, sono sempre declinati sul piano interno, mentre si trovano sottoposti a severi vincoli quando c’è di mezzo un confine». A mettere il dito nella piaga di questa rimozione è il sociologo Maurizio Ambrosini, da tempo attento e rigoroso osservatore del fenomeno migratorio nel nostro Paese (e non solo).

Nel suo libro Famiglie nonostante. Come gli affetti sfidano i confini (Il Mulino, pp. 188, euro 15) Ambrosini, che insegna Sociologia dei processi migratori e Politiche migratorie all’Università degli Studi di Milano, delinea il passaggio «da una migrazione di braccia a una migrazione di famiglie» – tra il 2015 e il 2017 i ricongiungimenti hanno sempre inciso più del 40% sui nuovi permessi di soggiorno concessi in Italia – e propone un viaggio all’interno delle dinamiche relazionali, sociali, ma anche psicologiche, spirituali, economiche che caratterizzano questi nuclei a cavallo tra due mondi. Il cui travagliato processo che porta dalla separazione fino al ritrovamento nella nuova patria può essere espresso attraverso l’immagine delle «tre famiglie» dei migranti scelta da Ambrosini.

Professore, ci spiega che cosa intende?
«La migrazione è un processo che nella grande maggioranza dei casi lacera i nuclei e dà loro forme nuove. La prima famiglia è quella che vive insieme nel Paese di origine e che, di fronte alla necessità, decide di far partire un membro verso una destinazione straniera. La seconda è quella transnazionale, che vive nella nostalgia e nel ricordo, nel tentativo di mantenere un senso di unità nonostante la lontananza: una sfida di fronte a cui molti soccombono. La terza famiglia è quella del ritrovamento, di quando si riesce infine a ricongiungersi nella nuova patria. Non necessariamente un lieto fine ma piuttosto un nuovo inizio».

In che senso?
«Questa nuova famiglia si scopre diversa da prima: tutti i protagonisti sono cambiati, non solo i bambini, che sono cresciuti, ma anche i componenti adulti. Vivendo separati, infatti, i coniugi hanno acquisito nuove competenze, aspirazioni, una mentalità differente. Le donne hanno conosciuto un’emancipazione pratica. I figli devono convivere con genitori da cui sono stati separati per anni, spesso poco più che genitori sociali. Ritrovarsi richiede una profonda rinegoziazione dei ruoli, dei rapporti, delle aspettative reciproche».

Lei racconta la sfida della genitorialità transnazionale. Chi sono questi genitori che partono in cerca di un’opportunità migliore per le loro famiglie?
«Per molto tempo si è insistito sulla figura paterna, investita anche di un’immagine positiva, quella del “padre che si sacrificava per mantenere la sua famiglia”. Oggi le protagoniste del viaggio sono spesso donne e madri. Nel mondo le migranti sono il 49,5% del totale, ma se escludiamo l’Africa sono la maggioranza. Le migrazioni contemporanee sono un fenomeno in cui le donne hanno un ruolo preponderante».

Le prime a venirci in mente sono le “badanti”, quelle donne che lasciano a casa la loro famiglia per accudire le nostre. Che vite fanno queste madri?
«Non c’è una situazione omogenea. Oggi sono molte quelle provenienti dall’Est Europa, di età matura, che non lasciano bimbi piccoli ma si devono fare carico di diverse generazioni: figli ormai grandi, marito, genitori, fratelli e magari già nipoti… Sono il prototipo di quella che chiamo “mater oeconomica”, che traduce la propria sollecitudine nei confronti della famiglia in forma di rimesse. In Ucraina hanno persino diagnosticato una sindrome psichiatrica che è stata battezzata “sindrome italiana”: riguarda donne che cadono in depressione per il super lavoro in una condizione molto stressante di vicinanza e accompagnamento di persone fragili, anziane, che declinano: per loro la storia non è mai a lieto fine».

Va un poco meglio alle donne con cittadinanza europea…
«Sì, ad esempio le romene che grazie al passaporto dell’Unione riescono a gestire meglio i confini e gli spostamenti. Penso ad esempio al pendolarismo organizzato delle sorelle che fanno in modo di assistere la stessa persona a turno, per qualche settimana ciascuna. L’accudimento a distanza dei figli, comunque, è sempre fonte di sofferenza emotiva e stress. Il caso più doloroso è quello delle madri giovani, con figli piccoli, da cui sono separate da lunghe distanze. Il caso tipico è quello delle latinoamericane, che spesso stanno per anni senza vedere i figli. Donne che abbiamo incontrato per le nostre ricerche e che piangevano quando raccontavano la loro vicenda, ma che nonostante la sofferenza e l’aspettativa sociale secondo cui “una buona madre sta vicina ai suoi bambini”, se ne allontanano per assicurare loro un futuro migliore. È quello che chiamo “l’ossimoro affettivo”, che spesso i figli non comprendono e non accettano, anche se molto dipende dal ruolo di mediazione di diversi attori, come l’altro genitore o i nonni».

Come vivono i ragazzi che appartengono a famiglie migranti? La situazione delle seconde generazioni sta cambiando, ad esempio sul fronte scolastico?
«La situazione di partenza, in Italia, era quella in cui i figli degli immigrati arrivavano soprattutto per ricongiungimento, avendo fatto spesso già un pezzo di percorso scolastico nel Paese d’origine. In questi casi, che talvolta si verificano ancora, il cammino è in salita perché il ragazzino viene inserito in una classe inferiore rispetto alla sua età e deve affrontare problemi linguistici, spesso percepiti come cognitivi: questo porta a ritardi scolastici, abbandoni, canalizzazione nei cosiddetti rami bassi del sistema d’istruzione. In questi anni tuttavia la situazione si è evoluta e oggi l’80% dei bambini di origine straniera nella scuola primaria sono nati in Italia. Questo si sta traducendo in migliori risultati anche nei gradi scolastici successivi. Permane un problema tra i ragazzi arrivati per ricongiungimento, che costituiscono ancora la maggioranza di quelli che frequentano le superiori. Eppure, oggi circa 30 mila giovani di famiglie immigrate frequentano l’università, senza contare quelli che nel frattempo hanno ottenuto la cittadinanza».

Per questi adolescenti e giovani, alle prese con la difficile costruzione della propria identità, quanto la pratica religiosa può costituire un elemento facilitatore di una positiva integrazione?
«Se l’aggregazione su base religiosa nelle comunità etniche di origine rappresenta una risorsa per le prime generazioni di migranti, come conferma tra l’altro una ricerca che ho condotto alcuni anni fa su un gruppo di immigrati cattolici e protestanti, per quanto riguarda i giovani la situazione è meno univoca. Queste forme sociali, infatti, hanno una loro specificità e attrattiva nel riproporre riti, feste, devozioni dei Paesi di provenienza, un aspetto che “parla” agli adulti ma non è detto che lo faccia altrettanto ai figli, che conoscono meglio l’italiano e si sentono ormai parte del nuovo contesto di vita».

E quindi, spesso, frequentano l’oratorio insieme ai loro coetanei.
«Certo. La Chiesa cattolica tra l’altro è in prima linea nel supporto alle famiglie migranti dal punto di vista pratico: dai centri d’ascolto alle scuole d’italiano, dai Centri di aiuto alla vita alle tante attività parrocchiali ordinarie. Tuttavia, se posso confessare un disagio, mi sembra che sul piano teorico e nella produzione dottrinale sui temi della famiglia non ci sia un’adeguata attenzione alla presenza dei nuclei immigrati. Che compaiono, semmai, in testi di pastorale specifica dei migranti, ma non in quanto famiglie tout court».

L’obiettivo, infatti, è quello di diventare cittadini a tutti gli effetti: che ne pensa dello ius culturae?
«L’idea di concedere la cittadinanza a chi completa un ciclo di studi nel nostro Paese mi sembra condivisibile. Penso che la scuola sia l’istituzione più adatta a certificare l’apprendimento non solo della lingua ma dei codici culturali e della storia della società italiana, visto che è adibita a farlo anche per gli autoctoni. C’è però un’altra dimensione che fornisce qualche motivo di ottimismo, cioè le pratiche di cittadinanza dal basso: la cittadinanza, infatti, non è solo qualcosa che viene dall’autorità dello Stato ma è fatta di interesse al dibattito pubblico e partecipazione nei contesti di scuola, università, volontariato… E le seconde generazioni mostrano forme di attivismo e impegno molto apprezzabili. Forse più degli italiani per nascita, questi giovani avvertono quanto sia importante trovare i modi e le forme per essere protagonisti attivi della società».

Perché, in tempi di decreti sicurezza, politicamente sarebbe invece utile promuovere i ricongiungimenti familiari?
«I dati sulla devianza confermano che, in generale, i protagonisti delle forme di criminalità socialmente più disturbanti sono giovani maschi soli. Anche comportamenti antisociali come ubriachezza, risse sono molto meno frequenti quando le persone entrano in contesti famigliari. Insomma, se gli immigrati vivessero in famiglia staremmo meglio tutti. E questo gioverebbe alla sicurezza più che i discussi decreti».