«Aiutiamoli a casa loro». Il problema è quando diventa una scusa

«Aiutiamoli a casa loro». Il problema è quando diventa una scusa

Michele Brambilla sul Giornale scrive che è sbagliato demonizzare come leghista un’idea che «appartiene alla tradizione della Chiesa e anche padre Gheddo ci ha insegnato». Perché secondo noi – che il lavoro di Gheddo lo continuiamo in questa rivista – le cose non stanno esattamente così

 

Caro Michele Brambilla,

ti scrivo dalla redazione di Mondo e Missione, la rivista che ha avuto per 35 anni come direttore il tuo amico padre Piero Gheddo, scomparso pochi mesi fa e che ieri hai voluto ricordare in un tuo commento apparso sul Giornale. L’hai citato per dare voce al tuo stupore nel vedere «gran parte del mondo clericale» accodarsi – nel dibattito in corso sui migranti – «alla scomunica preventiva dell’opzione aiutiamoli a casa loro» finendo, sostieni, per «demonizzare come leghista un’idea che appartiene alla tradizione della Chiesa».

Io non so che cosa direbbe oggi padre Gheddo su quanto sta accadendo intorno ai nostri porti e su questo dibattito. Una cosa, però, credo di averla imparata da lui: non esiste al mondo un posto che si possa con tranquillità etichettare come «casa loro». Se per tanti anni padre Gheddo ha girato da globetrotter da una frontiera all’altra è proprio perché il mondo lo sentiva ovunque come casa sua e nostra. E in quel Vangelo visto germogliare fino agli estremi confini della Terra, vedeva una speranza non solo per quei popoli, ma anche per noi.

Vedi, in fondo il problema sta tutto qui. C’è una differenza tra lo slogan gridato da Matteo Salvini e l’impegno paziente e quotidiano dei nostri missionari a costruire speranza nelle periferie del mondo; ed è una differenza racchiusa in un’unica domanda: questo mondo e le persone che lo abitano ci interessano per davvero oppure stiamo solo cercando una strada per difendere noi stessi e ciò che abbiamo?

Ecco, a padre Gheddo il mondo stava a cuore per davvero. Sinceramente: non credo gli sarebbe piaciuto uno slogan come «prima gli italiani». Lui amava il suo Paese e, certo, non demonizzava l’Occidente; ripeteva di avere visto il cristianesimo in tante realtà dell’Africa diventare motore dello sviluppo. Ma quante volte ci ha anche messo in guardia dalle forme di egoismo a cui la nostra società occidentale non è certo immune? Quante volte ha ripetuto sui poveri quello che aveva imparato dagli incontri con madre Teresa o dom Helder Camara? E quante volte in questi ultimi anni ha preso le difese di Francesco, «il Papa venuto dalle missioni» come lo chiamava lui, che ci indica l’accoglienza ai migranti come una sfida ineliminabile nel mondo di oggi?

Caro Michele Brambilla, almeno con te che ci conosci bene: smettiamola con questo derby da quattro soldi, dove tutto è incasellato in facili slogan da gridare sulla piazza. Dire che i migranti è meglio aiutarli nei loro Paesi d’origine è come dire che l’acqua è bagnata: siamo tutti d’accordo.

Ma il punto è discutere davvero su che cosa voglia dire aiutarli lì, quali responsabilità comporti anche qui tra noi nei confronti di questo mondo, quali fatiche e impegni concreti richieda a ciascuno. Vogliamo cominciare a farlo sul serio?

Perché è vero, in missione esistono le piccole-grandi testimonianze di vita, gli interventi di persone innamorate del Vangelo che seminano speranza e futuro grazie al sostegno di tanti benefattori. Ma si tocca lo stesso con mano che anche le scelte della politica hanno il loro peso.

Oggi viviamo in un mondo nel quale a livello globale le rimesse dei migranti superano di gran lunga gli aiuti per la cooperazione allo sviluppo (espressione che nemmeno compare nel Contratto di governo, firmato dalla Lega e dal Movimento 5 Stelle). Viviamo in un mondo dove – dopo l’Expo2015, durante il quale ci siamo riempiti la bocca con tante belle parole – gli affamati sono ricominciati a crescere e anche le diseguaglianze aumentano. E non basta certo chiamarli «migranti economici» per cancellare questo problema. Viviamo in un mondo dove «a casa loro» andiamo a prendere a prezzi stracciati i minerali che ritroviamo nelle batterie dei nostri dispositivi elettronici. Un mondo nel quale l’export degli armamenti è un settore del «made in Italy» che non ha mai smesso di tirare. Un mondo dove negli armadi di «casa nostra» ci sono magliette frutto di lavoro semi-schiavo «a casa loro». Possiamo parlare seriamente di migrazioni senza parlare anche di tutto questo?

Non abbiamo mai smesso di aiutare i poveri nei loro Paesi d’origine, invitando tanti benefattori a farlo insieme a noi. Per una questione di giustizia, non per paura delle migrazioni. Giusto per darti un paio di dati: nel 2017 come Fondazione Pime Onlus abbiamo sostenuto a distanza 12.672 tra bambini, ragazzi e disabili in quei Paesi che solo apparentemente sono lontani; e abbiamo realizzato 68 progetti di sviluppo tra pozzi, progetti agricoli, scuole, sostegno a piccoli ospedali. Sarebbe però un impegno ipocrita se diventasse la scusa per chiudere gli occhi di fronte ai bisogni di chi comunque bussa alla nostra porta e ci chiede di cambiare un po’ anche noi, se vogliamo davvero che nessuno sia più costretto a migrare.

Padre Gheddo era instancabile nell’invitare a sostenere l’opera dei missionari. Ma lo era altrettanto nel far capire che il futuro di quei Paesi è anche il nostro. Ed è proprio ciò che, invece, non vediamo negli slogan di oggi, dove l’unica preoccupazione sembra essere quella di individuare il luogo più lontano dove realizzare un hotspot per i migranti. Aiutiamoli nei loro Paesi d’origine, sì. Accogliamo con responsabilità e prospettive di futuro, strappando le persone dalle mani dei trafficanti di esseri umani. Ma non facciamone un comodo alibi per nascondere il mondo dietro il nostro dito.

Sarebbe l’opposto di quanto padre Gheddo ci ha insegnato; ma sarebbe soprattutto una sconfitta per tutti noi.