Burakumin: i giapponesi di cui nessuno vuole sentire parlare

Burakumin: i giapponesi di cui nessuno vuole sentire parlare

Alcune professioni sono tuttora associate a questa minoranza discriminata da secoli, equiparata agli altri cittadini dalla legge ma ancora oggetto di pregiudizi

 

Si chiamano “burakumin”, che significa letteralmente “gente del villaggio”. Sono circa tre milioni di persone e sono giapponesi purosangue. Hanno cognomi locali, non hanno origini straniere (come i discendenti della minoranza coreana) né provengono da una regione particolare, eppure nessuna famiglia nipponica rispettabile acconsentirebbe con gioia che il proprio figlio o la propria figlia si unisse in matrimonio con uno di loro.

In Giappone, sono come i paria, gli intoccabili dell’India. Grazie al romanzo “Il fiume senza ponti” di Sumii Sue, recentemente tradotto in italiano da Antonietta Pastore e pubblicato da Asiasphere, è possibile conoscerli meglio. Il libro racconta la storia di uno di loro: Kimura Kyotaro, fondatore del movimento giovanile di liberazione dei burakumin nel 1923. La scrittrice Sumii Sue (1902-1997) che fu un’attivista per i diritti delle donne e delle minoranze, prese a cuore la questione. Questo romanzo è il primo di otto volumi ispirati alla vita di Kimura e racconta la sua infanzia di bambino brillante e sveglio in un villaggio-ghetto, discriminato dai compagni di scuola malgrado il padre fosse un eroe di guerra. Gli insulti degli altri bambini riflettevano le parole di disprezzo udite dai genitori: i burakumin erano impuri e puzzavano. Per deriderli, si mostrava loro la mano con il pollice piegato e le quattro dita distese, in quanto era diceria diffusa era che questi emarginati nascessero con il pollice mancante.

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All’epoca in cui è ambientato il romanzo, la discriminazione di questa minoranza era stata ufficialmente abolita per legge. La tradizionale divisione in caste – nobili, samurai, contadini, artigiani e commercianti, con i fuoricasta ai margini della società – era stata soppressa nel 1871. Ed era stato vietato l’uso del termine “eta” (che vuol dire “pieni di sporcizia”), sostituito dalla parola burakumin, che suonava meno offensiva.

Perché mai questa gente era stata condannata a vivere ai margini della società, in villaggi separati dagli altri giapponesi? La causa era la loro professione: i burakumin erano macellai, becchini, conciatori di pelli, o svolgevano altre professioni ritenute sporche. Persino la fabbricazione dei sandali in paglia e degli zoccoli, che era loro monopolio, veniva guardata con disprezzo. Il primo ghetto per gli eta risalirerebbe al IX secolo, nella città di Kyoto.

Secondo alcuni studiosi, la diffusione del buddhismo sarebbe all’origine della condanna morale nei confronti di chi è chiamato a uccidere gli animali, lavorandone poi il sangue e le pelli. Ma la morte è considerata motivo di contaminazione in Giappone anche nella religione autoctona, lo shintoismo. I sacerdoti shintoisti evitano ogni contatto con il corpo di un defunto e non è un caso che i funerali siano anche oggi un rito buddhista.

Nel corso del Novecento, i burakumin hanno cercato di combattere i pregiudizi. Curiosamente, il loro movimento Suheisha, fondato nel 1922, aveva come emblema la corona di spine di Gesù Cristo, a simboleggiare la sofferenza subita.

Benché siano trascorsi quasi 150 anni dalla cancellazione ufficiale delle leggi discriminatorie, i burakumin giapponesi continuano a essere penalizzati. Ancora negli anni Settanta, pare che circolasse un elenco di nomi e comunità buraku consultato segretamente dai datori di lavoro, per decidere le assunzioni. E in un sondaggio governativo è risultato che una persona su 10 non gradirebbe che suo figlio spossasse qualcuno di famiglia burakumin. Tant’è che i fantomatici elenchi oggi servirebbero per verificare le origini di un futuro genero o nuora.

La yakuza (la mafia giapponese) è composta in buona parte anche da discendenti dei burakumin. Non c’è da stupirsi: chi viene confinato ai margini della società può facilmente covare una voglia di rivalsa, unendosi alla criminalità.

Resta il fatto, come rilevava un articolo della Bbc, che alcune professioni in Giappone sono tuttora oggetto di tabù. Chi lavora in un macello, per esempio, è estremamente malvisto dalla società, anche se non è di origine burakumin. Il film “Departures” (2008) toccava un tema simile: il protagonista, un violoncellista disoccupato, finiva per trovare lavoro in una ditta di pompe funebri, dove si occupava di preparare le salme per il funerale, ma era costretto a tenere nascosta la sua nuova professione. E quando la verità veniva a galla, gli amici e la moglie lo abbandonavano.

Quanto ai burakumin, forse c’è ancora nella società giapponese attuale chi sceglie la politica dello struzzo, come rilevava la ricercatrice americana Emily Reber in uno studio risalente alla fine degli anni Novanta. Basta non parlarne e far finta di niente, e il problema burakumin sparirà. In realtà, l’unico modo per far sparire le discriminazioni è agire per farle cessare, e non certo ignorarle.