AL DI LA’ DEL MEKONG
Click: giovani donne cambogiane disponibili

Click: giovani donne cambogiane disponibili

Per quanto una circolare del ministero degli interni del 2014 abbia dichiarato illegale in Cambogia la pratica della maternità surrogata, equiparandola allo «human trafficking», il governo di fatto non ha ancora legiferato in merito. È proprio in questa “vacanza della legge” che il mercato della maternità surrogata prolifica


Prima o poi sarebbe successo. Con le restrizioni dello scorso anno in India, Thailandia e Nepal era inevitabile che il mercato della maternità surrogata si sarebbe spostato altrove. Surrogacy Cambodia è il nome dell’ultima agenzia per questo tipo di servizi arrivata in Cambogia. Lo scopo dichiarato è quello di offrire a coppie statunitensi, etero ed omo, la possibilità di affittare l’utero di una donna per procreare il proprio figlio/a. Il sito internet di Surrogacy Cambodia espone il catalogo: si tratta di una serie di giovani donne cambogiane disponibili per il servizio di maternità che possono essere scelte attraverso il solito, semplice click. Dopo le indispensabili carattersistiche fisiche, che le foto di circa 50 donne documentano, ciò che interessa agli acquirenti è sapere quanto costerà il tutto.

Sono più di una dozzina le agenzie che in terra cambogiana offrono questo servizio. Alcuni dei loro nomi sembrano promettenti, New Life Cambodia, New Genetics Global, Sensible Surrogacy, Families Through Surrogacy, ecc. per ciò che ormai viene chiamato «rent-a-womb tourism». Il costo sembra aggirarsi intorno ai 30.000 dollari, ma nessuno in questi ambienti parla apertamente dei servizi e delle implicazioni di una simile pratica. Il pensiero comune è che troppa pubblicità porterebbe a chiusure e restrizioni legali. La pratica, quindi, vive mimetizzandosi; i siti internet sono pieni di sorrisi, molto probabilmente anche quelli a pagamento. Quanto ai 30.000 dollari di cui sopra, circa 10.000 vanno alla madre surrogata. Una di esse, che vive a Phnom Penh, ha dichiarato di aver ricevuto un simile compenso, precisando però che ha dovuto versare il 20% di tale somma al broker che l’ha messa in contato con l’agenzia. Con i soldi rimasti la donna si è comprata un piccolo pezzo di terra alla periferia della città, ma è ancora lontana dall’aver risolto i suoi problemi economici.

Quanto alle 50 donne esposte nel catalogo mi chiedo quale grado di libertà o quale grado di consapevolezza possano avere, in una cultura come quella cambogiana ancora incapace di educare al pensiero critico e alla coscienza di sé, e nella quale la condizione di povertà spesso condanna le donne ad essere strumenti nelle mani di chi ha denaro e potere. Mi chiedo ancora se la tradizione buddista cambogiana è attrezzata per far fronte a queste nuove problematiche di natura morale e che riguardano il destino del Paese, a cominciare dal destino di quelle donne messe in bella mostra come fossero oggetti di mercato, subordinate e piegate alle necessità di qualcun’altro. «Nell’atavica storia di inferiorizzazione delle donne, – scriveva Chiara Giaccardi sulle pagine di Avvenire – la maternità è stata uno dei pochi luoghi di sacralità: la donna dea, la madre terra che unica è in grado di generare vita». Ora non vi è più nulla di sacro. Gli uomini e le donne, nella vita e nell’amore, si mettono le mani addosso, si usano e poi si gettano. Spesso le donne coinvolte come madri surrogate non sono adeguatamente informate sui rischi derivanti dall’impianto di più embrioni nel proprio utero. O del fatto che poi si debba intervenire per ridurre l’eventuale numero di feti eccedenti rispetto agli scopi pattuiti nel momento della firma del contratto. La cronaca registra casi di aborto o abbandono, nel caso di figli diversamente abili o non conformi al desiderio della coppia committente.

Per quanto una circolare del ministero degli interni del 2014 abbia dichiarato illegale la pratica della maternità surrogata, equiparandola allo «human trafficking», il governo di fatto non ha ancora legiferato in merito. È proprio in questa “vacanza della legge” che il mercato della maternità surrogata prolifica fino al caso delle «Baby factory», come quella creata dal business-man giapponese Mitsutoki Shigeta prima in Thailandia e ora sospettato di essere attivo anche in Cambogia. Con il proprio seme, con ovociti di terzi, e 11 madri surrogate, è diventato padre di 15 bambini trasferiti poi all’estero per altrettante coppie committenti.

L’auspicio è che presto, prima della legge, e prima di qualsiasi morale cattolica (!), sia la tradizione buddista, non solo cambogiana, a trovare al suo interno un modo per proteggere ciò che è sacro e a suggerire a tutti gli uomini e donne d’occidente «ad essere completamente d’accordo con tutto» (cfr. C. Pensa, La tranquilla passione, Roma 1994, 155). Perché «spesso e volentieri non siamo d’accordo quasi con nulla di ciò che ci capita, ossia di ciò che entra in noi per le porte dei sensi e della mente: non siamo d’accordo con il cielo che è ancora coperto, non siamo d’accordo con il taglio di capelli della persona che sta passando, non siamo d’accordo con i mobili della sala d’attesa dove siamo appena entrati», non siamo d’accordo con il nostro sesso, non siamo d’accordo con la possibilità di non avere figli, non siamo d’accordo con noi stessi. Allora si scoppia. «Non aderiamo alla realtà che incontriamo; al contrario, ci sganciamo di continuo», e questa non-accettazione genera la compulsione a comprare, produrre, fabbricare alternative possibili, fino al punto di costringere qualcuno a darci la felicità. Comprata, pretesa. Basterebbe invece dire di si, aderire al reale senza riserve. Perché «chi cerca la propria felicità ferendo altri esseri che come lui cercano la felicità, non sarà mai felice» (Dhammapada, 131).