Donarsi nella gratuità e nella gioia

Donarsi nella gratuità e nella gioia

«Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date». Queste parole del Vangelo continuano a ispirare suor Roberta Pignone, missionaria dell’Immacolata e medico in Bangladesh. Dove, nonostante tante fatiche, prova ancora a donarsi perché la vita di tutti possa essere più bella. Ecco il suo racconto

«Sister den!» è la frase con la quale iniziano le mie giornate ormai da circa sei mesi nei quali il mio ospedale si trova a ospitare molte donne con i loro figli. Ed è uno spasso! «Sister den» vuol dire «Suora dammi» ed è una richiesta ormai quotidiana: i bambini mi chiedono di tutto e sempre di più, è nella loro natura.

E nei giorni scorsi il Vangelo ci diceva che gratuitamente abbiamo ricevuto e gratuitamente dobbiamo dare: «In quel tempo Gesù vedendo le folle ne sentì compassione… Strada facendo… guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi…gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 9,36).

Quanto ho ricevuto io! Quanto ricevo e non posso tenere nulla: devo dare in amore, in coccole, in tenerezza!

L’ultimo dono per me è stata la presenza di una mia consorella di passaggio qui, tanto cara, a cui sono particolarmente legata e con la quale ho potuto condividere la gioia della mia quotidianità. La bellezza del dono è più grande se condivisa con chi sa capire fino in fondo la qualità del gesto.

E così è la gioia della piscina che ha ristorato le giornate afose: quanto ridere, quanta gioia nel buttarsi l’acqua addosso con i cuccioli che sguazzavano!

Vedere ridere di gusto queste donne che non sono abituate a divertirsi, a stare insieme, a gustare le piccole cose che qui si possono fare, anche solo mangiare un gelato la sera prima di andare a letto (anche se trovando un serpente qui in mezzo a noi): la vita è dura per loro.

Modina ha 23 anni ed è sposata da 9, con un uomo che è malato psichiatrico e non si fa curare e le rende la vita impossibile! È qui da circa 5 mesi tra un rientro a casa e l’altro nel tentativo di far ragionare il marito. Le abbiamo regalato la macchina da cucire perché possa rendersi indipendente economicamente, ma suo marito ha venduto tutto quello che aveva in casa e lei è riuscita a nascondere la macchina a casa del padre e poi a farsi ricoverare ancora qui da noi.

Il marito reclama lei e i figli, ma sono riuscita e tenerli qui con noi con la scusa che stanno prendendo i farmaci per la profilassi contro la TB. Il marito non si è più fatto sentire dall’ultimo ricovero e lei era serena: la scorsa settimana abbiamo fatto il nostro pomeriggio in piscina, le risate, la gioia… Mi si stringe il cuore a vedere Modina che ride spensierata con noi e con i suoi figli. Finito di giocare, ho mandato tutti a cambiarsi i vestiti e ci siamo ritrovati mezz’ora dopo; tutta la gioia era stata cancellata da una telefonata del marito che dopo due mesi pretendeva lei e i figli. La mia felicità ha lasciato lo spazio alla rabbia: non è possibile che le venga tolta anche quella piccola serenità che vive qui.

Il marito si è presentato il giorno dopo e voleva riportare tutti a casa. Io sono riuscita a ottenere un’altra settimana di ricovero, dicendo che Modina è ancora positiva (bugia!) e che non posso dimetterla. Non è stato facile affrontarlo; ho dovuto alzare la voce e come medico imporre di non poterla dimettere.

Ma è una settimana, solo una settimana e questo non le cambia la vita: lei dovrà tornare a vivere con quell’uomo che le ha reso la vita impossibile sin da quando ha dovuto sposarlo, così come mi ha detto lei stessa.

Il giorno del mio compleanno mi ha detto che l’indomani sarebbe stato il suo anniversario di matrimonio: da nove anni la sua vita è diventata dura e la sua unica gioia sono i suoi due figli di 4 e 1 anno e mezzo.

Cosa posso fare? Non posso tenerla qua a vita ma posso farle sentire tutto quel bene che non ha mai ricevuto da suo marito. Posso fare in modo che il nostro ospedale possa diventare un luogo di cura del cuore così come lo è per Amena e Litaz, che pur essendo state dimesse ritornano una volta la settimana, il martedì mattina con i loro figli, stanno qui a pranzo e nel pomeriggio si gioca insieme.

Sì, l’ospedale si è trasformato anche in una piccola scuola materna… o, come piace chiamarla a me, in una super “cucciolandia”!

Dopo il tempo della pandemia di Coronavirus siamo tornate ai baci e agli abbracci, ne hanno bisogno, ne abbiamo tutti bisogno e così, sfidiamo il Covid-19 che sembra non voler mollare… Speriamo in bene!

Ogni giorno nel nostro ospedale ci si sveglia con urla, pianti e strilli di chi si sa esprimersi solo così per ottenere quello che vuole: ed ecco che si è aggiunto un nuovo cucciolo, non gli hanno dato ancora il nome e allora io lo chiamo “pondhitt” che vuol dire studioso! E il figlio di Saimon, una mia paziente da tanto tempo  e che sta facendo per la quinta volta la terapia per la tubercolosi che ora si è ripresentata alla tibia. Ha avuto paura durante la gravidanza, è molto magra e fragile e al consultorio dove andava a farsi controllare le hanno detto da subito che non avrebbe potuto affrontare un parto naturale. L’ho portata da una ginecologa privata che ha assicurato di prendersi cura di lei e di fare di tutto per farla partorire naturalmente e al massimo avrebbe fatto lei il cesareo. Mi sono fidata. Mercoledì, dopo il controllo dalla ginecologa, è iniziato il travaglio e così siamo andati in quella fantomatica clinica privata che si trova proprio di fronte all’ospedale governativo. Poi ho scoperto il motivo di tale posizione! Al momento del ricovero, grande confusione e poi finalmente ci hanno detto di andare al terzo piano, senza ascensore! L’abbiamo portata su in braccio! Una volta entrata in camera è venuta l’ostetrica. Saimon era sdraiata sul letto (non parliamo delle condizioni delle lenzuola e del cuscino!); io ero seduta sul letto di fronte. Ecco che l’ostetrica si avvicina a me e dandomi una pacca sulla spalla mi dice di non avere paura che c’è lei e che il parto andrà bene! Le ho specificato che il parto non era il mio ma quello di Saimon che presentava una pancia prominente. «Ottimo inizio!», mi sono detta e dopo una mezz’oretta ho deciso che sarei tornata a casa lasciandola con la suocera e la futura cognata: troppo diverso i consigli che le davano loro rispetto ai miei, così ho pensato di lasciare a loro il campo, tanto c’era l’ostetrica alla quale ho detto di chiamarmi una volta iniziato il parto.

Mi hanno chiamata all’una di notte e sono andata in clinica. Il parto non procedeva e Saimon continuava a supplicarmi di chiedere il cesareo. Io le ho detto che non potevo decidere, non era il mio ospedale e poi l’infermiera che la seguiva (l’ostetrica non si vedeva) le ha detto che in quella clinica non si fanno i cesarei di notte e bisognava aspettare il mattino. Ed erano le due di notte!

Poi è andata via la corrente e il generatore non è mai partito. Saimon ha dato alla “luce” il suo cucciolo con le torce dei nostri cellulari e con un po’ d’aria fatta con i cartoncini della pubblicità delle medicine! Una volta nato il bimbo, finalmente arrivata l’ostetrica che stava dormendo. E la corrente è tornata, dopo che l’hanno suturata.

Io ero gelata, non ho aperto bocca perché se avessi parlato probabilmente sarebbe venuta giù la clinica: quella clinica che è stata messa proprio lì di fronte all’ospedale governativo perché così, in caso di necessità, dicevano che il cesareo si sarebbe potuto. Magari trasportando Saimon in braccio perché non c’è nemmeno un’ambulanza.

Credo che non ci siano molte parole da aggiungere: io ho chiesto a tanti di pregare per Saimon in quella notte perché è vero, dove noi non ce la facciamo ci pensa il Signore a sistemare le cose. Il parto alla fine è andato bene e ora Saimon coccola il bambino ancora nel nostro ospedale per qualche giorno, sotto la cura attenta dei due fratellini più grandi.

Sono stata al suo fianco e di questo mi ringrazia quotidianamente, sensazioni strane, la mia impotenza, il non poter decidere ma recitare in silenzio delle preghiere perché andasse tutto bene. Loro sono musulmani e invocavano spesso Allah; io ho affidato Saimon a Maria ed è andato tutto bene. Però non dimentico la sua paura, la sua continua richiesta di aiuto, il suo dirmi: «Sister, non ce la faccio, non sopravvivo, non riesco a partorire». Le stringevo la mano e pregavo: se le fosse successo qualcosa, io che avevo scelto quella dottoressa e l’avevo portata in quella clinica, ne sentivo tutta la responsabilità. Di certo non mi vedranno più in quel posto!

Ora quello che più mi dà gioia è sentire il cucciolo che piange e vedere l’allegria di tutti. Ed è Modina che fa il turno di notte per coccolarlo perché Saimon possa dormire, anche se so che ha nel cuore la paura di dover tornare dal marito. Io non posso fare di più, non posso trattenerla ancora, ma posso solo darle tutto quell’amore e quella cura di cui ha bisogno.

I pazienti forse hanno perso un pochino di tranquillità, ma io non mi preoccupo più di tanto, quello che resta poi alla fine è quell’amore che hanno potuto ricevere queste donne in questi mesi di condivisione di vita, perché almeno la vita possa essere un poco più bella!

E io rimango la sister della piscina, la “sister dem”, la sister che si commuove perché una paziente che ha superato un esame mi porta un dolce per condividere la gioia. L’amore passa, l’amore rimane e scalda il cuore. Balsamo che non smette mai di essere condiviso, balsamo che entra nella pelle, nel corpo e lenisce, profuma e rende più belle. Il balsamo che si consuma ma lo sentiamo in queste parole: «Gratuitamente ricevete, gratuitamente date». Io il balsamo lo ricevo ogni giorno dal Suo amore e dal sapere che sono nel suo cuore e nei suoi pensieri e così posso continuare a donarmi perché le loro vite possano essere più belle.