India-Cina, guerra fredda ad alta quota

India-Cina, guerra fredda ad alta quota

Nelle ultime settimane una nuova fiammata ha riportato altissima la tensione sui confini del Ladakh. Ad alzare la posta in gioco il fatto che sia a Modi sia a Xi Jiping in questo momento fa comodo una battaglia nazionalista per sviare l’attenzione dai problemi interni. Un incontro tra i due comandi militari oggi ha mandato un messaggio di distensione, ma la partita non è chiusa

 

Proprio mentre l’emergenza Coronavirus cresce in maniera sempre più preoccupante in India, sono tornati a farsi tesi i rapporti tra New Delhi e Pechino per un’annosa disputa territoriale. E sono dunque quanto mai importanti gli incontri ad alto livello – tenutisi in queste ore – per cercare di disinnescare le tensioni che ancora una volta stanno contrapponendo le forze armate cinesi e indiane su uno dei fronti di conflitto tra i più elevati e insieme più caldi al mondo.

A essere coinvolta è la “Linea di controllo” – in sostanza una linea di armistizio, mai riconosciuta internazionalmente e soggetta a periodiche modifiche dalle mosse delle forze contrapposte spesso dopo sanguinosi scontri – che separa lo Stato indiano nordoccidentale del Ladakh e l’Aksai Chin, regioni contese dopo il breve ma sanguinoso conflitto che nel 1962 portò alla temporanea occupazione di vaste regioni del Nord-Est dell’India e rischiò di coinvolgere i due Paesi in un conflitto aperto. Accordi parziali firmati nel 1993 e che sono stati spesso violati.

In aree che superano i 4.000 metri di altitudine, dopo alcune scaramucce iniziate il 27 maggio e il fallimento dei tentativi di avviare un negoziato e sotto pressione per la crescente visibilità delle azioni cinesi, New Delhi ha ordinato l’invio di truppe e mezzi e chiesto ai comandi di prepararsi a un conflitto prolungato per contrastare le pressioni degli avversari e un accumulo senza precedenti di uomini e mezzi sul lato opposto della Linea di controllo.

Non va ignorato che ai due lati del confine cino-indiano si fronteggia almeno mezzo milione di uomini con armamenti non solo evoluti – soprattutto da parte cinese – ma anche specializzati per le difficili condizioni ambientali, mentre la seconda linea di attacco prevede l’uso di sistemi missilistici in grado di devastare non soltanto i centri di comando militare ma anche alcune tra le maggiori aree urbane dei due Paesi.

A definire la situazione – e stabilire se si sta andando verso un suo allentamento o recrudescenza – tocca ora ai comandi militari, con un primo incontro tenutosi oggi nel campo avanzato cinese di Moldo; anche se ad aprire al dialogo erano stati colloqui tenuti già ieri in videoconferenza tra funzionari di alto livello dei rispettivi ministeri degli Esteri, con l’impegno espresso da Pechino di “risolvere correttamente un problema di rilievo”.

Un “problema” che ancora una volta chiama in causa scelte del passato influenzate da alleanze e necessità strategiche, ma non può ignorare la situazione attuale che incentiva in entrambi i Paesi nazionalismo e necessità di allentare le crescenti pressioni interne sulle leadership.

In India, nonostante lo strapotere elettorale del nazionalista Bharatiya Janata Party, maggioritario nel governo guidato da Narendra Modi, vanno evidenziandosi le difficoltà e soprattutto le incongruenze di scelte che stanno mancando gli obiettivi di sviluppo condiviso e che invece vanno ampliando le fratture nella società a spese dei gruppi meno favoriti, accentuate dai provvedimenti presi per contrastare l’epidemia di Covid-19 con il rischio di una regressione drammatica del sistema-Paese. Da qui la necessità di individuare un elemento unitario con cui distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica in questa fase, che Pechino ha fornito sperando forse in una reazione armata a tutela di un controllo che è non solo strategico ma anche necessario per i progetti energetici e di sviluppo di New Delhi.

La dirigenza cinese, non ha motivazioni molto diverse, esacerbate però dalla sfida posta dalla situazione di Hong Kong e dal sostanziale fallimento della politica di «un Paese due sistemi» che coinvolge anche Taiwan e apre a scenari nuovi e inquietanti mentre l’attenzione internazionale, già sollecitata dal ruolo incerto del Paese nella diffusione della pandemia, va facendosi sempre più critica verso il regime anche sul piano dei diritti umani e delle strategie internazionali.

A dare ulteriori motivazioni a Pechino, la piena integrazione da agosto 2019 del Ladakh conteso nella repubblica indiana dopo decenni di tentennamenti. Una mossa unilaterale estesa alla parte del Kashmir dall’indipendenza in mano all’India, che è stata vista da molti come rivolta al Pakistan che l’ha fortemente avversata, ma che non poteva mancare di coinvolgere il vicino cinese. La mossa di New Delhi, ha portato infatti i confini ufficiali dell’India entro una zona che Pechino continua a rivendicare come propria con il nome di Aksai Chin, assegnata in parte alla provincia dello Xinjiang e in parte alla Regione autonoma tibetana (Xizang).

 

Foto: Flickr / Saurabh Chatterjee