Grazie ai califfi per il risotto. E non solo!

Grazie ai califfi per il risotto. E non solo!

Grazie per il grano duro degli spaghetti, per i limoni, per gli spinaci e per molto altro. Come racconta Andrew M. Watson nel suo saggio “La rivoluzione agricola araba”. La cultura, anche alimentare, si nutre di scambi

Questa vicenda c’è su tutti i libri di scuola. Nel Medioevo, gli arabi varcarono le porte d’Europa, occuparono buona parte dell’attuale Spagna e sarebbero dilagati nel resto del continente se i francesi non li avessero fermati a Poitiers nel 732. Qualche merito a questi conquistatori lo riconosciamo: nella penisola iberica, portarono architetture strabilianti e la loro arte dei giardini. A Baghdad, invece, i califfi abassidi assoldarono schiere di traduttori perché i testi greci potessero essere letti in arabo. Grazie a loro, filosofi come Platone e Aristotele sono entrati a far parte del patrimonio culturale europeo, così come molti testi di medicina, matematica e ingegneria.

Questi guerrieri venuti dal deserto dell’Arabia, che avevano occupato l’attuale Medio Oriente, la Persia e il Nordafrica nel nome di Maometto, realizzarono un’altra rivoluzione, tutt’ora poco raccontata nei libri di storia: cambiarono il mondo dell’agricoltura e ampliarono gli alimenti disponibili sulle nostre tavole. A sostenerlo è un breve ma illuminante saggio di Andrew M. Watson, pubblicato nel 1974 su The Journal of Economic History e ora riproposto da Slow Food Editore. Si intitola La rivoluzione agricola araba. Tra Settecento e Millecento, alle radici di ciò che mangiamo oggi, è di facilissima lettura ed esce corredato da un’introduzione dello storico Piero Bevilacqua e due contributi di Roberta Biasillo e Paolo Squatriti.

La tesi di Watson è semplice: prima della scoperta dell’America, che rese disponibili un’infinità di nuove piante commestibili – dal pomodoro alle patate – gli arabi favorirono tra il 700 e il 1100 la circolazione di idee, merci e anche di vegetali nell’enorme impero che crearono. Grazie a loro, secondo lo studioso inglese, piante originarie dall’India e dall’Asia e giunte nell’impero sasanide (cioè i possedimenti persiani dal 224 al 651 d.C.), arrivarono anche in Europa. Qualche nome? Il riso, la canna da zucchero, gli spinaci, gli asparagi, le melanzane, le arance amare e i limoni, il lime, i cocomeri, il sorgo… Ogni volta che gustate un risotto alla milanese o con gli asparagi, ricordatevi che è merito degli arabi che lo portarono in Sicilia. E, come ricorda Bevilacqua, il riso da lì prese una via che resta sconosciuta verso il nord Italia, per approdare in Lombardia e Piemonte. Documenti del Quattrocento testimoniano la presenza della pianta a Milano e a Mantova.

Anche quando mangiamo un piatto di pasta dovremmo essere grati agli arabi. Il grano duro (Triticum durum), originario dell’Abissinia, fu portato in Sicilia, dove i vermicelli detti itriya in arabo erano già fabbricati nel XII secolo, come racconta un geografo arabo. Certo, come scrive Squatriti, i contestatori di questa tesi di Watson si sono appigliati a ritrovamenti archeologici di grano duro in alcuni siti archeologici precedenti all’Islam. Ma ciò che conta davvero non è chi ha coltivato per primo il grano duro, ma chi ne ha favorito una diffusione ampia, facendo da apripista perché pasta e spaghetti diventassero un alimento importante. E qui la risposta è univoca: gli arabi.

Nella rivoluzione agricola araba, rientrano anche il cotone e la coltivazione dei manghi, della palma da cocco e del taro, che però nell’Europa dell’epoca non presero piede. Rimasero confinati in zone più calde, come l’Africa orientale e l’Arabia. In questo periodo di cambiamenti climatici, potrebbero tornare d’attualità: la produzione di manghi in Sicilia è già realtà. E forse oggi dovremmo ripensare anche ai cereali che coltiviamo, puntare sulle specie e sulle varietà che richiedono meno acqua. Watson cita il sorgo che se la cava bene anche in terreni asciutti e sabbiosi, e lo stesso grano duro, resistente alla siccità.

Oltre alle piante che diffusero, gli arabi portarono anche nuove tecniche agricole. Sembra bizzarro che un popolo del deserto sia riuscito a fare questo miracolo, ma forse proprio chi è abituato alla scarsità d’acqua diventa più attento a usarla. Da una parte, si diedero da fare per recuperare dighe e sistemi d’irrigazione caduti in disuso, ingegnosamente ideati in terre come la Mesopotamia. Dall’altra, inventarono nuove soluzioni: dalle ruote azionate da animali ai canali sotterranei, che potevano portare l’acqua su lunghe distanze. I nuovi metodi di irrigazione resero possibile un’agricoltura diversa. Se ai tempi dei romani si seminava d’autunno, si raccoglieva a primavera e l’estate era una stagione morta per i contadini, con le nuove colture introdotte da Paesi caldi come l’India si poteva produrre anche nella stagione più torrida. Canna da zucchero, riso, cotone, cocomeri, grano duro e sorgo potevano maturare d’estate, consentendo di avere altri raccolti in stagioni diverse. Insomma, la terra rendeva di più. E così, secondo Watson, in questo periodo d’oro dell’espansione araba crebbero la popolazione e le città.

Un’altra lezione che ci arriva dal passato e dal mondo arabo riguarda il modo in cui questa rivoluzione agricola fu gestita dalle autorità. Fino al 1100, oltre a provvedere alle grandi opere i califfi promossero il cambiamento con una politica che oggi definiremmo di incentivi fiscali. Un esempio? Watson cita il regolamento di Muhammad. Se un contadino avesse reso coltivabile un terreno incolto per tre anni, ne diventava proprietario, godendo di un regime fiscale agevolato: pagava solo un decimo del valore dei suoi prodotti. Rispetto all’Europa del Medioevo, fatta di grandi proprietà e di servi della gleba, il contadino mediorientale coevo stava molto meglio, perché poteva possedere un appezzamento sufficiente al benessere suo e della famiglia.

Questo stato di grazia durò fino all’XI secolo, quando gradualmente iniziò un processo di decadenza, coinciso con l’arrivo di nuovi invasori. Il breve saggio di Watson merita di essere riletto, perché ci offre una prospettiva diversa, in un’epoca come la nostra in cui l’immigrato è visto come un invasore, e non una risorsa. La presenza araba, benché imposta con le armi, fu un elemento d’innovazione. E gli stessi arabi in questo periodo della loro storia riuscirono a creare una società fiorente, grazie all’apertura mentale dei loro governanti, desiderosi di imparare da altre culture senza rinnegare la propria. Perché dallo scambio – di idee, di persone… – la storia dimostra che c’è sempre da guadagnarci.