Paradiso amaro

Paradiso amaro

In Papua Nuova Guinea l’emergenza legata al cambiamento climatico e allo sfruttamento delle risorse si intreccia con una crisi culturale e sociale. Viaggio nel Paese al centro del progetto della Fondazione Pime 2021

 

Le prime indiscrezioni circolano a ottobre 2020. L’area interessata è quella della provincia di Madang sulla costa nord. Compagnie estrattive avrebbero ottenuto una licenza per rimuovere la sabbia dalla spiaggia lungo ampi tratti di costa. Lo sfregio al paesaggio sarebbe evidente. Ma anche quello alle comunità costiere che vivono in un delicato equilibrio con l’oceano e l’immediato entroterra. Ciò avviene mentre pare fortunatamente sconfitto il primo tentativo al mondo, a leadership canadese, di sviluppare miniere sui fondali marini (seabed mining) al largo delle coste della Papua Nuova Guinea. L’opposizione al piano è stata dura, ma il successo sembra essere arrivato in parte per le difficoltà finanziarie delle compagnie coinvolte. Improvvidamente il governo nazionale vi aveva investito. Perdendo tutto.

Ora il sand mining (estrazione di sabbia), ennesimo allarme ambientale per il Paese del Pacifico meridionale. Ciò che più ferisce quando questi piani diventano noti è una costante: la popolazione non ne sapeva nulla. A volte ne erano a conoscenza alcuni, veri o presunti, leader di clan, oppure politici di vario livello, che avevano segretamente trattato e a volte firmato per tutti, non si sa in cambio di quale cifra. Documenti con timbri e firme diventano difficili da annullare nei tribunali. Gli avvocati delle grandi compagnie internazionali ben conoscono le tattiche dilatorie, i sistemi di intimidazione e il modo per mettere a libro paga parlamentari e ministri.

La nuova grande miniera d’oro Frieda River a monte del fiume Sepik, tra i primi al mondo per portata d’acqua, sempre sulla costa nord a ridosso della cittadina di Wewak, non può certo essere fermata dopo anni di investimenti e di studi di fattibilità. La battaglia è sulle modalità di smaltimento delle scorie estrattive, per evitare che finiscano nel grande fiume e compromettere un ecosistema ricchissimo e l’approvvigionamento di cibo e acqua per decine di migliaia di persone. Eppure l’identica esperienza sul fiume Fly, dalla parte opposta del Paese, con la miniera Ok Tedi era lì da anni a insegnare.

Il primo ministro James Marape è stato fortemente criticato per non avere automaticamente rinnovato il contratto alla Barrick Gold Corporation e aver minacciato di nazionalizzare la miniera d’oro e d’argento di Porgera, qualora il contributo al governo locale e nazionale non fosse aumentato e gli standard di protezione dell’ambiente almeno in parte migliorati. A fine novembre la questione rimaneva aperta e determinante per la sopravvivenza o meno dell’esecutivo e per lo spirito con cui la Papua Nuova Guinea si avvicinerà alle elezioni politiche del 2022.

Il dramma è che l’emergenza ambientale appare troppe volte provocata da attività umane più che da eventi naturali o dal cambiamento climatico, che pure è evidente. L’oceano infatti sale. Gli scienziati ne misurano con precisione le variazioni impercettibili; ma alla gente basta vedere, per convincersene, lunghi tratti di costa sparire nel nulla. E con essi abitazioni, scuole, piante di cocco, orti e campi. Non è detto poi che un clan possa facilmente sistemarsi altrove dopo aver perso la propria terra ancestrale. Il Paese è in gran parte disabitato, ma un centimetro quadrato di terra che non sia stata tramandata a uno specifico gruppo da tempi immemorabili non esiste. Nessun altro la può possedere. Può esserne ceduto l’uso, a volte a costo di risarcimenti che non finiscono mai, ma non la proprietà. I conflitti di terre sono tra i più sanguinosi nel Pacifico. Tradizionalmente non esiste il concetto occidentale di compravendita e proprietà privata. La terra è come una parte del corpo.

L’emergenza ambientale si intreccia con una crisi culturale e una sociale, che a loro volta derivano dal moderno processo di globalizzazione. È fin troppo evidente che la Papua Nuova Guinea, come tanti altri Paesi a loro tempo colonizzati, possiede le risorse naturali, ma non ha alcuna capacità di estrazione e trasformazione delle medesime. Nello stesso tempo ha bisogno di soldi per far funzionare la macchina dello Stato, per i servizi e le infrastrutture di una società almeno in parte moderna o che necessita di essere tale sulla base di un modello ormai diffuso. Non rimane che affidare lo sfruttamento delle ricchezze al know how e al capitale stranieri in cambio di modesti contributi alle casse pubbliche, di temporanee opportunità occupazionali e, nell’ipotesi migliore, di assistenza scolastica e sanitaria o servizi occasionali per le comunità prossime alle miniere. Nel caso del taglio del legname pregiato, a volte illegale, su vaste aree di foresta tropicale, neanche questo. Si tratta di attività scarsamente controllate, dove si sono segnalati di recente casi di immigrazione illegale, anche in regime di pandemia, oltre alla totale mancanza di rispetto degli accordi in favore della popolazione, una volta assicuratosi col denaro il silenzio delle autorità politiche.

La Papua Nuova Guinea aveva un sistema universitario modesto ma funzionante al momento dell’indipendenza dall’Australia nel 1975. Ora è cresciuto, almeno dal punto di vista dei numeri. Ma i ragazzi che arrivano a un titolo equivalente alla laurea rimangono un’infima minoranza. Né la scuola primaria o secondaria è accessibile e frequentata da tutti. La maggior parte dei giovani nelle campagne e negli insediamenti urbani di periferia rimangono in una condizione di analfabetismo o semi-analfabetismo.

Frequentare la scuola non raramente significa essere in una classe di ottanta allievi. Quale livello culturale può essere garantito al Paese di domani? A quando una sintesi positiva ed efficace tra l’eredità ancestrale, che solo apparentemente scompare, mentre in realtà lascia tracce profonde, e il nuovo che avanza in modo seducente, ma disordinato?

Non è difficile notare la scomposizione in tre livelli dell’attuale tessuto sociale e culturale della nazione. Il primo naturalmente è quello antico, precedente ai primi approcci da parte dell’Occidente circa due secoli fa. È il mondo della foresta, dei fiumi e delle coste pescose. È la civiltà degli spiriti e degli antenati, delle danze, della caccia e della pesca, del baratto, dei matrimoni organizzati, della stregoneria, dei capi tribali indiscussi, dell’antropofagia e dei conflitti perenni, della solidarietà di gruppo e della totale assenza di autodeterminazione personale, di proprietà privata, di idea di cambiamento e trasformazione. Si vive in simbiosi con la natura e gli altri esseri animati, che ti vestono e ti nutrono, ma ti possono anche distruggere. Non ci si ammala e non si muore a causa di qualcosa, ma di qualcuno, che deve essere punito. Non esiste la scrittura e quindi nemmeno la lettura, solo il disegno e la decorazione, l’osservazione.

Moltissimo di questo, nelle sue componenti positive e negative, oggi sopravvive nella pratica sociale e ancora di più nella psiche personale. È la fisionomia di fondo del cittadino della Papua Nuova Guinea anche più istruito. Pur essendosi allontanato dal villaggio per studio e lavoro, nulla di esso disprezza. Sa che, un giorno, là torneranno i suoi resti mortali. Chiunque egli sia. Al sostrato culturale ancestrale si è sovrapposta, modificandolo non poco, la componente cristiana. Si tratta di una dimensione riconosciuta e recepita anche nella carta costituzionale della Papua Nuova Guinea indipendente. Le varie denominazioni cristiane prima e più del potere coloniale (tedesco e inglese, poi australiano) hanno introdotto la scienza, la scuola, la medicina, l’ostilità alla guerra, all’aborto, all’abbandono dei bambini (perché gemelli o femmine o disabili o altro…), all’antropofagia, alla stregoneria, oltre a una religione completamente nuova. Un lavoro intenso, soprattutto fino ai primi anni dopo l’indipendenza, con risultati apprezzati di cui la popolazione è ampiamente grata. E che continua soprattutto nell’ambito della scuola e della salute (circa il 50% dei servizi disponibili fa riferimento a una Chiesa) e dell’intervento di fronte alle problematiche sociali tradizionali e moderne.

Con il processo di indipendenza negli anni Settanta però diventa chiaro ai cittadini locali che, oltre alla componente ancestrale e a quella cristiana, dovranno fare spazio a un’altra realtà occidentale: lo Stato moderno e le sue istituzioni. Dove in passato c’era solo il clan ora vi sono anche le Chiese (numerose e variegate quasi quanto le tribù) e lo Stato.

Tre realtà e autorità con i loro codici e valori, il loro potere, le loro istituzioni, la polizia e i tribunali, le elezioni, un Parlamento e un governo, la moneta, la cash economy e tante altre componenti. Una situazione più complessa e impegnativa di quella antica, per quanto comunemente accettata come “progresso”. Senza contare che al modello occidentale, applicato alla meno peggio, si accompagna la nuova cultura globale. È questa la vera sfida. Il periodo dei missionari e della colonizzazione era stato percepito come positivo per i suoi contributi spirituali e culturali, mentre ciò che si vive oggi fa sempre più paura. La popolazione aumenta, ma non così le risorse e la capacità di provvedere istruzione, servizi sanitari e occupazione. La politica non soddisfa. Troppi giochi di potere e corruzione: una mentalità ancestrale di privilegio che fatica a trasformarsi in spirito di servizio. Nessun piano urbanistico e di edilizia popolare per le città, certo non paragonabili alle metropoli asiatiche o africane ma che comunque crescono: per le pur limitate opportunità di lavoro e la voglia di abbandonare la monotonia delle campagne e i conflitti familiari, tribali o di terre tipici delle aree remote. A ciò si aggiunga la precarietà ancora più acuta di alcune migliaia di rifugiati della vicina Papua indonesiana legati al movimento indipendentista.

Nulla tuttavia adesso intimorisce più di un possibile degrado generale dell’ambiente. Il Paese è ancora lontano dal punto di non ritorno, ma i segnali di preoccupazione non mancano. La principale compagnia per il taglio del legname, Rimbunan Hijau, della Malaysia, ora con interessi anche nel commercio al dettaglio, nella ristorazione, nell’ospitalità, nei media, è ormai più ricca e potente del governo. Le miniere di oro, argento e rame sono necessarie, ma inquinano. Ampi tratti di costa rischiano di essere danneggiati dall’estrazione di sabbia. Se lo sfruttamento minerario dei fondali marini dovesse concretizzarsi, la pescosità dell’oceano ne risentirebbe considerevolmente. Il problema è che, quando le fonti naturali di approvvigionamento alimentare vengono a mancare, non esistono alternative. Nei negozi serve moneta, ma per averne ci vuole un lavoro o qualcosa da scambiare.

L’ambiente va quindi protetto dalle minacce naturali e soprattutto da quelle umane, perché la stessa sopravvivenza di individui e comunità possa essere assicurata. Non si tratta di opporsi al “progresso”, cosa di cui vengono spesso accusati coloro che contrastano lo sfruttamento indiscriminato delle risorse, ma di armonizzarlo coi diritti di chi vive sul territorio, ne è il custode e il reale proprietario.

Poco prima della chiusura dell’anno accademico a metà novembre e in vista del rientro nei propri villaggi, gli studenti originari della provincia di Madang all’università statale si sono riuniti per programmare attività di sensibilizzazione contro l’estrazione di sabbia dalle coste. È una delle iniziative promosse dagli organismi della Conferenza episcopale, in particolare la Caritas e il nuovo Ufficio migranti e rifugiati, che si occupa anche dei movimenti interni di popolazione a causa di calamità naturali o procurate e conflitti tribali.

Il cardinale arcivescovo di Port Moresby, John Ribat, ha preso più volte posizione pubblicamente contro lo sfruttamento minerario dei fondali marini. Ma solo la formazione e la mobilitazione dei giovani potranno determinare il corso delgli eventi. Parlare con loro di ambiente li rassicura sul futuro e li coinvolge in una battaglia carica di valori e motivazioni pratiche. La natura è ciò che rimane loro in eredità e che devono essere educati a rispettare, proteggere e difendere. Anche contro i poteri più spregiudicati.

 

LA CAMPAGNA DEL CENTRO PIME

Il Fondo S142 – Sorella Papua Nuova Guinea ci accompagnerà per tutto il 2021. È possibile sostenerlo sul sito donazioni.pimemilano.com. La Campagna finanzierà progetti per la tutela delle popolazioni e dell’ecosistema e contro le conseguen­ze dei cambiamenti climatici.