Fuggiti dalla Siria si riabbracciano in Cambogia. Dopo 7 anni

Fuggiti dalla Siria si riabbracciano in Cambogia. Dopo 7 anni

La fuga dalla guerra a Daraa, il barcone dall’Indonesia, la lunga detenzione sull’isola-lager di Nauru, il «ricollocamento» a Phnom Penh, nuovi scogli burocratici per far arrivare la famiglia: nella storia della famiglia Zalghanah l’intero repertorio dell’odissea globale dei rifugiati

 

Aspettava sua moglie e i quattro figli a Phnom Penh con un mazzo di fiori in mano. E finalmente – dopo sette anni – ha potuto riabbracciarli. Compreso il «piccolino» che ormai ha undici anni. È la storia della famiglia Zalghanah, fuggita dalla guerra in Siria; una storia che da sola probabilmente riassume tutte le sofferenze a cui vanno incontro i richiedenti asilo nel mondo a porte chiuse di oggi.

A raccontarla in questi giorni è stata la tv australiana Abc. Una fonte non casuale: proprio il grande Paese dell’Oceania che il ministro degli Interni Matteo Salvini qualche tempo fa indicava come un modello da seguire per l’Italia, ha avuto infatti un ruolo non secondario nelle sofferenze di questa famiglia.

La storia degli Zalghanah comincia nel 2011 a Daraa, il Paese da cui cominciarono le rivolte trasformatesi presto in una guerra in Siria. Da lì il signor Abdullah con la moglie Yasmin e i quattro figli decidono di fuggire nel vicino Libano. Ma il conflitto in Siria dilaga, durerà a lungo, e Abdullah Zalghanah non vuole restare a marcire in un campo profughi. Così nel 2012 sceglie di partire di nuovo in cerca di fortuna; l’idea è quella di ricostruirsi una vita altrove e appena possibile farsi raggiungere dalla famiglia. Come tanti altri profughi – però – non viene affatto «qui da noi»; sceglie la direttrice est: dal Libano raggiunge prima l’Egitto e da qui in aereo la Malaysia e poi l’Indonesia. Che non è però la destinazione finale: Abdullah vorrebbe arrivare in Australia. E in Indonesia si affida ai trafficanti di uomini per arrivarci via mare; il barcone, però, viene intercettato e il richiedente asilo siriano finisce anche lui a Nauru, l’isola della Micronesia dove il governo australiano respinge i migranti. È la metà del 2013 e confinato lì ci resta per ben tre anni; assistendo anche a gesti estremi di disperazione di altri richiedenti asilo che arrivano a darsi fuoco per protesta contro la detenzione in un campo collocato su un’isola in mezzo all’Oceano.

Alla fine nel 2016 – sfinito dall’attesa – Abdullah intravede una possibilità: accetta di aderire a un accordo di «ricollocamento» in Cambogia, Paese non certo floridissimo a cui però con un accordo da 55 milioni di dollari l’Australia vuole scaricare parte dei suoi rifugiati parcheggiati a Nauru e sull’altra famigerata isola di Manus. C’è anche un incentivo da 10 mila dollari australiani per i migranti che accettano; ma il punto che spinge Abdullah ad accettare è soprattutto la promessa che in Cambogia finalmente potrà essere raggiunto dalla sua famiglia. Promessa che, però, si rivelerà ben più faticosa di quanto promesso: a Phnom Penh ha potuto avviare un piccolo ristorantino mediorientale; ma per far arrivare davvero la moglie e i quattro figli ci sono voluti altri due anni e una nuova odissea fatta questa volta di pratiche permessi. Più di una volta – ha raccontato – ho pensato che non li avrei rivisti mai più.

Sette anni di sofferenze e separazioni. Solo per il desiderio di fuggire da una guerra e costruire un futuro migliore per sé e per la propria famiglia. Alla fine ci sono riusciti solo in Cambogia; perché in Australia – come in tanti Paesi dell’Europa di oggi – non c’era posto per loro.