I nostri giovani isolati ma globalizzati

I nostri giovani isolati ma globalizzati

La presenza nel Paese, che fu la prima destinazione del Pime, ha oggi  al centro la sfida educativa delle nuove generazioni. «In città come nei villaggi in mezzo all’oceano», spiega il superiore padre Di Lenarda

 

«Meglio fare l’intervista subito: domani parto per Mapamoiwa, sull’isola di Fergusson, e non sarò raggiungibile per un bel po’…». La risposta di padre Giovanni Di Lenarda, superiore delegato del Pime in Papua Nuova Guinea, contattato per una chiacchierata sulla presenza dei nostri missionari nel Paese, è di per sé indicativa della vita quotidiana in quest’angolo del Pacifico così lontano – non solo geograficamente – dalla realtà europea. Una grande isola (o meglio mezza: la porzione orientale della Nuova Guinea) tagliata in due dalle montagne e affiancata da vari arcipelaghi e un’infinità di piccoli scampoli di terra circondati dall’oceano, raggiungibili solo con lunghissimi viaggi in aereo e barca, quando le condizioni del mare e del cielo lo permettono.

Una perifericità che, se per lo meno sembra aver tenuto lontana la pandemia di Covid-19, condiziona pesantemente la missione. «Ci teniamo in contatto con il nostro “quartier generale” ad Alotau tramite la radiotrasmittente: i confratelli che risiedono lì, in particolare fratel Giuseppe Bertoli, hanno anche il compito di recepire le nostre esigenze e di organizzare i carichi da mandarci con le barche», racconta padre Giovanni. «Per raggiungere Watuluma sull’isola di Goodenough, la presenza storica del Pime dal 1981, da quando cioè siamo rientrati nel Paese dopo il martirio del beato Mazzuc­coni nel 1855, servono 12 o 13 ore di navigazione», spiega il missionario 56enne, originario della diocesi di Udine.

Da quella che fu la prima spedizione dell’Istituto, sull’isola di Woodlark, negli anni Cinquanta dell’Ottocento, alcune cose non sono cambiate: le distanze, ma anche la frammentazione geografica, tribale e linguistica – qui alle tre lingue ufficiali inglese, tok pisin e hiri motu, si affiancano circa 850 idiomi locali, il 10% di quelli parlati al mondo -, la preponderanza della natura, la presenza ancora viva della cultura ancestrale. Ma poi ci sono le nuove sfide: una popolazione che cresce (da tre a otto milioni in quarant’anni) e quindi tanti nuovi giovani – il 40% degli abitanti ha meno di quindici anni – che faticano a trovare il proprio posto in una società fortemente contraddittoria: ricca di risorse di cui però godono le compagnie straniere, affascinata dal progresso ma ancora incapace di garantire un’istruzione alla maggioranza dei suoi ragazzi.

«Le scuole non sono numerose e sono quindi selettive: in pochi riescono ad accedere ai gradi superiori», spiega padre Di Lenarda. «Gli altri si trovano senza opportunità e rischiano di finire ai margini della società. Ecco perché proprio i giovani sono oggi la nostra priorità». A Watuluma sorge il centro professionale gestito da fratel Roberto Valenti, dove sessanta studenti nel corso di tre anni imparano a diventare falegnami, meccanici ed elettricisti. «Anche i padri Robert Moe e Dominic Hashda, del Myanmar e del Bangladesh, nelle comunità di cui sono responsabili, cercano di essere un punto di riferimento per le nuove generazioni: sono loro il futuro della nazione». Oltre ad assistere i pazienti dell’ospedale gestito dalle Missionarie dell’Immacolata, i due religiosi accompagnano con il counseling e la direzione spirituale gli studenti che frequentano la scuola delle suore.

Uno stile simile a quello di chi opera a Mapamoiwa, come lo stesso superiore delegato: «Un giovane che vive qui ha ben poche prospettive al di fuori dell’agricoltura, la pesca, un po’ di caccia… E purtroppo insieme alla frustrazione crescono le dipendenze: ormai quella della marijuana è una coltivazione che si trova dappertutto nell’interno delle nostre isole». Ma un disagio simile non è diffuso solo tra le piccole comunità perse in mezzo all’oceano. «Al contrario, si tratta di una sfida comune a tutta la Papua Nuova Guinea e che, nei contesti in cui siamo presenti, cerchiamo di affrontare: dalla zona di Alotau dove operano i padri Francesco Raco e Peter Saw, 33enne del Myanmar, fino alla capitale».

La parrocchia di St. John the Apostle, alla periferia di Port Moresby, è la base di padre Dong Saladaga, filippino, che quotidianamente visita i locali settlements, insediamenti urbani degradati in cui mancano servizi e opportunità. «Padre Dong lavora con i bambini di strada e offre un supporto ai giovani che, trasferitisi nella grande città in cerca di una nuova vita, si trovano senza sbocchi». Proprio questi ragazzi saranno i beneficiari di un progetto, coordinato dall’arcidiocesi e finanziato attraverso la campagna lanciata per quest’anno dal Pime, che punta a creare competenze nel settore dell’agricoltura sostenibile. «Vogliamo formare cittadini che, secondo lo spirito della Laudato si’, siano in grado di far fruttare la loro terra nel rispetto dell’ecosistema», spiega padre Giovanni.

L’emergenza ambientale, insieme alle migrazioni, la povertà, la sfida educativa, è tra le priorità della Conferenza episcopale, di cui è segretario padre Giorgio Licini. Segno della presenza del Pime nel cuore delle principali frontiere della società. Dalla costa sud del Paese, dove sorge appunto la capitale, a quella settentrionale, nella vasta arcidiocesi di Madang: la missione più recente dell’Istituto.

Padre Ralph Jasawala, parroco della chiesa di Holy Spirit e decano di Bogia, ci è arrivato dall’India, così come padre Suresh Kumar Gorremuchhu, che a Bosmun ha costruito spazi per la preghiera e per la formazione di insegnanti, bambini e genitori. Dalla Guinea Bissau viene invece padre Gaudêncio Pereira, che oggi opera nella parrocchia di Kayan, dove per tanti anni non c’è stato un parroco per assistere i quattromila cattolici che vivono in nove villaggi sparsi tra la costa dell’oceano e le rive del fiume.

In questo Paese a grande maggioranza cristiano (i cattolici sono il 36%) c’è spazio anche per il primo annuncio del Vangelo? «Su questo fronte abbiamo due grosse sfide», spiega padre Di Lenarda. «Una è la frammentazione tra diverse denominazioni, aggravata dal sorgere continuo di nuove “Chiese” personali, con la conseguente divisione all’interno delle comunità e delle stesse famiglie. L’altra è il persistere di superstizioni ancestrali: l’annuncio punta a purificare quegli elementi della cultura tradizionale che non sono in linea con il Vangelo, valorizzandone invece gli aspetti positivi».