Cristiani in guerra

Cristiani in guerra

Il conflitto nel cuore dell’Europa oppone fratelli nella fede, uniti da un legame storico. Lo scontro attuale, manipolato dalla politica, ha creato una frattura le cui conseguenze vanno ben oltre i confini ucraini

 

Il 4 novembre 2016, sulle rive della Moscova proprio di fronte al Cremlino, veniva inaugurata una statua gigante dedicata al santo principe Vladimir il Grande, che nel 988 fu l’artefice della conversione al cristianesimo della Rus’ di Kiev, entità monarchica che comprendeva l’odierna Ucraina e gran parte dell’attuale Russia europea.

La comparsa del monumento, molto simile a quello che a Kiev campeggia lungo il corso del Dnipro, non era casuale: «Si trattava del chiaro segnale della volontà di ribadire la “proprietà” russa di questo mito fondativo, uno dei punti cardine in base ai quali Putin afferma la non esistenza di una cultura specifica ucraina». Monsignor Francesco Braschi, direttore della Classe di Slavistica dell’Accademia Ambrosiana, sceglie un apparente dettaglio, ma dal forte valore simbolico, per spiegare come, nello scontro fratricida che divampa nel cuore dell’Europa, la fede sia stata trascinata in guerra.

In questi mesi, d’altra parte, abbiamo assistito agli arresti di sacerdoti ucraini da parte degli occupanti russi con l’accusa di “attività sovversive”, così come alle perquisizioni da parte degli 007 di Kiev a caccia di “sabotatori” in diversi monasteri legati al patriarcato russo. La religione viene usata come fattore identitario per dividere, manipolata dai vertici politici e persino ecclesiastici, in uno scempio che sta avendo effetti gravissimi anche sul cammino ecumenico a tutti i livelli.

Sui campi di battaglia, infatti, sono cristiani contro cristiani, ortodossi contro ortodossi. Addirittura fratelli nello stesso Battesimo: questo è l’unico punto che non può essere messo in discussione. «Anche se tra Mosca e Kiev non esiste una lettura comune della storia – uno dei problemi che viviamo oggi – le origini della Chiesa sono oggettivamente le stesse, e risalgono a quando l’attuale capitale russa non esisteva ancora», chiarisce monsignor Braschi, che insegna anche Teologia all’Università Cattolica di Milano.

Vero è che, nel 1325, in seguito a una serie di complesse vicende storiche, la metropolia di Kiev fu spostata a Mosca: «Ciò non significa tuttavia che nella parte occidentale dell’attuale Ucraina sia mai venuta meno la volontà di mantenere una propria identità anche ecclesiale». Monsignor Braschi sottolinea l’importanza di questa «terra di mezzo, che fa da cerniera tra la Slavia ortodossa e l’Europa cattolica» e dove, non a caso, nacquero le Chiese greco-cattoliche unite a Roma: «Una vicenda ancora sovente divisiva, che tuttavia dice molto circa la coscienza di poter essere slavi e di rito bizantino, senza per questo accettare la dottrina di Mosca “terza Roma”».

Sono avvenimenti più recenti, però, che ci aiutano a comprendere la grave frattura di fronte a cui ci troviamo oggi. A cominciare da ciò che successe subito dopo l’indipendenza di Kiev dall’Unione Sovietica, il 24 agosto del 1991. «Se fino ad allora la metropolia locale faceva parte del patriarcato di Mosca, ben presto in seno al Sinodo tornò forte l’istanza di autonomia». Una spinta che alla fine diede origine a un vero scisma, con l’autoproclamazione di una Chiesa ucraina indipendente guidata dal metropolita Filaret (ma senza riconoscimento ufficiale), in opposizione a quella fedele alla Russia.

Iniziarono anni di divisioni laceranti, con la “corsa” ad accaparrarsi parrocchie e luoghi di culto. Prima dello scoppio dell’attuale conflitto, alla giurisdizione filo-russa facevano riferimento circa 20 milioni di fedeli e 12 mila parrocchie, mentre a quella “nazionale” tra gli otto e i nove milioni di aderenti, in circa 5 mila parrocchie. «Nel Paese, poi, fece ritorno una terza gerarchia autonoma, vissuta in esilio per 45 anni, e che pure radunò un ampio seguito di credenti».
Uno scenario complesso di Chiese in conflitto, in cui la suddivisione dei fedeli seguiva solo in parte linee di demarcazione geografiche, etniche e linguistiche: «In Ucraina, così come d’altra parte in Russia, moltissime famiglie sono miste per le politiche sovietiche di assimilazione delle minoranze – sottolinea Braschi – e questo ci dà un’idea della drammaticità di una guerra che oppone fratelli e sorelle, genitori e figli».

Lo strappo definitivo risale alla fine del 2018, con la scelta del patriarcato ecumenico di Costantinopoli, il primus inter pares di tutto il mondo ortodosso, di concedere all’Ucraina l’agognata autocefalia, ossia il diritto ad amministrarsi in modo indipendente. La nascita della nuova Chiesa, che sotto la guida del metropolita Epifanij riuniva le due istituzioni non canoniche, va inquadrata nei tumultuosi avvenimenti degli anni precedenti: le manifestazioni filoeuropee di fine 2013 note come Euromaidan, represse dal presidente Janukovyč, e la rivoluzione del 2014 con la sua fuga e l’elezione dell’europeista Poroshenko. E ancora, l’annessione russa della Crimea nel 2014 e gli scontri nel Donbass, dove il malcontento di parte della popolazione russofona fu fomentato dall’espansionismo di Mosca.

L’invasione di undici mesi fa, infine, ha creato una lacerazione all’interno del mondo ortodosso destinata ad andare ben oltre i confini ucraini. Racconta monsignor Braschi: «Onufrij, metropolita della Chiesa legata a Mosca, scrisse una lettera al patriarca Kirill in cui lo esortava come “padre” a esporsi in difesa dei suoi figli. Di fronte però alle prese di posizione sempre più nette di Kirill a sostegno di Putin, anche il Sinodo guidato da Onufrij lo scorso maggio ha dichiarato l’indipendenza». Un «vulnus gravissimo» che approfondisce la rottura della comunione e le divisioni già emerse con il Concilio di Creta del 2016, che doveva essere pan-ortodosso ma a cui la Russia (tra gli altri) rifiutò di partecipare.

«Oggi, la guerra ha leso la credibilità delle Chiese coinvolte, con molti fedeli che si trovano di fronte a grossi problemi di coscienza», sostiene l’esperto. «Il patriarcato di Mosca ormai punta apertamente ad affermarsi come vero custode dell’ortodossia, esautorando il primato teorico di Costantinopoli». L’esempio forse più significativo riguarda l’Africa: «Tra i patriarcati che hanno riconosciuto l’autocefalia ucraina c’è quello greco di Alessandria, che formalmente ha giurisdizione su tutto il continente. In risposta a questo affronto, Mosca ha avviato un programma di incorporazione di parrocchie, anche in accordo con la Chiesa copta». E segni di divisione emergono in molti altri contesti. Come in Turchia, dove finora fedeli legati a diversi patriarcati avevano una consuetudine di convivenza. «Que­sta stessa familiarità vissuta alla base in molti Paesi europei per fortuna non è stata del tutto stravolta dalle vicende politiche – nota monsignor Braschi – ma la situazione è grave, anche a livello ecumenico: la commissione mista di dialogo cattolico-ortodosso è in stallo».

Come uscirne? «Il cardinale Koch, presidente del Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani, di recente ha ribadito la necessità di rivedere l’impostazione ecclesiologica ortodossa basata sulla “sinfonia” tra Chiesa e Stato». Ma si tratta di una tradizione radicatissima ed è difficile prevedere se le voci che chiedono un rinnovamento anche dall’interno prima o poi prevarranno. «Noi, come Biblioteca Ambrosiana, abbiamo scelto di ascoltare il grido di tanti amici russi che ci hanno chiesto di non lasciarli soli, di non rompere i rapporti accademici e culturali. Fin dalle origini, proprio l’apertura al dialogo è la nostra identità e siamo convinti che sia l’unica via per costruire il futuro».