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Seoul: con i giovani oltre le solitudini
18 Gen 2023

Seoul: con i giovani oltre le solitudini

Giorgio Bernardelli
L’annuncio di una speranza oltre la competizione sfrenata della metropoli, il bisogno di soluzioni creative per riaprire il dialogo con Pyongyang, il sogno di ospitare nel 2027 la Gmg: parla l’arcivescovo Peter Chung Soon-taick, da poco più di un anno guida della Chiesa della capitale coreana

 

È forse la metropoli dell’Asia su cui si sono accesi di più i riflettori negli ultimi anni. Dai ritmi del K-pop al successo delle serie tv Seoul ha fatto irruzione nelle case di tutto il mondo. Comprese le contraddizioni di questa metropoli di 10 milioni di abitanti, che simbolicamente la morte di 158 giovani nella calca di Halloween ha fatto emergere.
Ma anche per la Chiesa la Corea del Sud è da tempo un luogo significativo: per anni è stata la comunità cattolica dei record, quella che cresceva a ritmi inimmaginabili in altre aree del mondo. E ancora oggi che i suoi fedeli si sono assestati intorno all’11,3% della popolazione la Chiesa coreana rimane una realtà vitale, che al resto dell’Asia dona missionari e sostegno prezioso. Eppure anche a Seoul la presenza cristiana avverte il bisogno di un cambio di passo. Ne è convinto soprattutto il suo arcivescovo monsignor Peter Chung Soon-taick – carmelitano di 61 anni – chiamato nel 2021 dal Papa a guidare questa Chiesa raccogliendo le sfide della grande metropoli.

Monsignor Chung, che cosa significa essere vescovo in una metropoli di oltre 10 milioni di abitanti?
«Nella metropoli ci sono vantaggi e svantaggi, anche per una comunità cristiana. Tra le opportunità c’è la maggiore facilità di spostarsi e incontrarsi; lo stile di vita delle persone è più simile, nel bene come nel male. Questo rende più semplice immaginare progetti e iniziative. Ma le metropoli hanno anche il volto della solitudine, un problema che a Seoul tocca molto anche i giovani. Il tasso di suicidi è alto, alimentato dalla forte competizione sociale. Nella grande città è più facile sentirsi perdenti, depressi, soli».

E che cosa dicono alla Chiesa queste solitudini?
«Che dobbiamo uscire a cercare queste persone. Non possiamo aspettarle nelle nostre chiese. Dobbiamo farci vicini e accompagnarle. A Seoul abbiamo avviato già da alcuni anni un cammino per per raggiungere i giovani che non vanno più a scuola. Sono in gran parte persone che hanno perso la propria strada. Ecco, questo ministero è un esempio di che cosa intendo quando dico che occorre uscire a cercare chi si sente solo».

Al suo ingresso come arcivescovo, lei ha voluto farsi accompagnare proprio da un gruppo di giovani. Perché?
«In Corea il numero dei giovani si sta fortemente riducendo. Rispetto a vent’anni fa sono diminuiti di un quarto. Abbiamo il tasso di natalità più basso al mondo: secondo le statistiche ufficiali appeno 0,8 figli per coppia, meno anche del Giappone. È una grossa sfida».

È il motivo per cui anche nelle comunità cattoliche coreane i giovani oggi diminuiscono?
«Non è l’unico, ce ne sono anche altri. Ad esempio: tanti studenti coreani, fin dalle scuole elementari, finiscono risucchiati nel vortice della competizione per aggiudicarsi un posto nelle migliori università, porta di ingresso ai lavori più qualificati. Anche tra i genitori cattolici oggi c’è chi li scoraggia a partecipare alle attività ecclesiali, per frequentare corsi extra-scolastici e studiare sempre di più».

Che fare, allora?
«Abbiamo bisogno di un punto di svolta per la nostra pastorale giovanile. Per questo vogliamo portare la Giornata mondiale della gioventù a Seoul nel 2027. Stiamo presentando la nostra candidatura per essere la diocesi che ospiterà il raduno mondiale con il Papa nell’edizione successiva a quella di quest’anno a Lisbona. Anche gli altri vescovi della Corea hanno dato il loro sostegno. Nulla è ancora deciso. Ma stiamo preparando il dossier da inviare alla Santa Sede».

In che cosa vi aiuterebbe ospitare una Gmg a Seoul?
«Si tratta di un evento che non nasce e finisce nell’arco di una manciata di giorni: è un cammino. La sua preparazione potrebbe diventare un’ottima occasione per riunire i giovani intorno a un progetto, rendendoli protagonisti. E anche una volta terminata, sarebbe bello condividere con tutti quanto abbiamo vissuto: diverrebbe un’occasione missionaria per far conoscere i valori del Vangelo nella nostra società».

Nel frattempo, però, i giovani di tutto il mondo guardano alla Corea per altri motivi: la musica, le serie tv…
«Sì, è vero: la K-culture oggi attrae molti giovani e questa potrebbe anche diventare una carta interessante per noi. Certo, i suoi valori non sono quelli cattolici; ma questa Corea che si afferma nel mondo della musica, dell’arte, dello spettacolo è un volto del nostro Paese. Sta a noi saperlo utilizzare per far conoscere Gesù, ciò che ci sta realmente a cuore».

E a lei quale volto della Corea piacerebbe far scoprire a chi da lontano guarda il suo Paese?
«Il rispetto per le altre persone, il rispetto per gli anziani: sono atteggiamenti radicati da migliaia di anni nella mentalità coreana. Prima ancora che il mio Paese conoscesse il cristianesimo, qui si diceva che l’uomo è il cielo: ogni vita è preziosa quanto il divino».

Che cosa ha rappresentato il Covid-19 per Seoul?
«Tre anni fa, quando la pandemia è arrivata dalla Cina, siamo stati protetti bene. L’anno scorso, però, il Covid-19 si è diffuso molto, anche se con casi meno gravi. Come Chiesa oggi dobbiamo fare i conti col forte calo delle presenze dei fedeli alla Messa. Dopo il lockdown solo circa il 70% dei fedeli è tornato alle celebrazioni. Molti si sono convinti che guardare un rito alla tv basti, ma questo non è andare a Messa. Farlo capire è un’altra sfida che abbiamo davanti».

Come arcivescovo di Seoul lei è anche amministratore apostolico di Pyongyang, dove dall’ascesa del regime comunista la Chiesa cattolica è stata cancellata: come vede i rapporti con la Corea del Nord?
«Da quando, ormai tre anni fa, è fallito il summit di Singapore tra l’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump e quello della Corea del Nord Kim Jong-un, Pyongyang ha interrotto le relazioni con tutti i Paesi e specialmente con la Corea del Sud. Prima c’era stato qualche contatto: anche noi come Chiesa avevamo potuto inviare degli aiuti. Ora tutto è bloccato, non abbiamo nessun accesso».

E in questa situazione che cosa può fare l’amministratore apostolico di Pyongyang?
«Oggi praticamente nulla. Ma di fronte a qualsiasi possibilità dovesse presentarsi farò del mio meglio per riaprire le porte. Spero anche di poter aiutare Papa Francesco a recarsi in visita in Corea del Nord. Lui ha ripetuto tante volte che vorrebbe andarci. E anche Pyongyang ha detto che lo accoglierebbe volentieri. Sono due parti che dicono la stessa cosa: devono solo incontrarsi».

Gli ultimi mesi, però, hanno visto crescere le tensioni e i test missilistici di Pyongyang.
«Dobbiamo ragionare in modo creativo per riportare la Corea del Nord ad aprire le sue porte. Alcuni vescovi in Corea del Sud hanno grossi dubbi sulle sanzioni che gli Stati Uniti e altri Paesi hanno comminato a Pyongyang già da molti anni. Hanno reso più difficile la vita della gente, senza impedire al governo di continuare ad armarsi. Va trovata un’altra strada. Se noi smettessimo di guardarli come nemici che cosa succederebbe? Non è che forse cambierebbero anche loro?».

Sono passati tanti anni dalla guerra, ma le ferite faticano a rimarginarsi.
«La guerra non è mai finita, da settant’anni è in vigore solo un cessate il fuoco. Ma noi abbiamo disperatamente bisogno di riconciliazione. Siamo lo stesso popolo, la stessa nazione, abbiamo la stessa storia. Come arcidiocesi di Seoul manteniamo viva questa attenzione: abbiamo un Comitato speciale per la pace e la riconciliazione che ha il compito di esplorare ogni strada per collegarsi, comunicare, aiutare il Nord».

Potrebbe diventare un modello anche per le Chiese dell’Europa, chiamate oggi a ripensare il proprio impegno per la pace?
«Non so se sia un modello: non abbiamo raggiunto il frutto più importante, la riunificazione. Il principio di fondo, però, è ovunque lo stesso: riconosciamoci reciprocamente come esseri umani. È l’umanità dell’altro ciò che la guerra distrugge. Ed è il motivo che deve spingerci a lavorare per fermare ogni guerra».


Il vescovo carmelitano

Arcivescovo di Seoul dal dicembre 2021, Peter Chung Soon-taick è nato a Daegu nel 1961. Ha studiato ingegneria prima di entrare nella vita religiosa nell’ordine dei carmelitani scalzi. Sacerdote dal 1992, biblista, è stato membro della curia generalizia del suo ordine prima di essere nominato a soli 52 anni vescovo ausiliare di Seoul accanto al cardinale Andrew Yeom Soo-jung.


Asia, Gennaio 2023 comunità cattolica, Corea del Sud, dialogo, giovani, Peter Chung Soon-taick, seoul

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