Il pioniere di Phnom Penh

Il pioniere di Phnom Penh

Padre Toni Vendramin fu il primo missionario del Pime ad arrivare in Cambogia nel 1990. Il suo bilancio a trent’anni di distanza: «La città è cambiata ma tante ferite nascoste restano aperte»

«A Phnom Penh adesso ci sono i grattacieli di quaranta o cinquanta piani. Quando arrivai io nel 1990 le strade asfaltate erano due o tre. Le uniche auto erano del governo ed erano tutte russe. Ora invece sono i cinesi che comandano…».

Dal luglio scorso, a 77 anni, padre Toni Vendramin ha lasciato a un sacerdote coreano la guida della comunità di San Pietro, nella zona vicino all’aeroporto. Ma chiamarla pensione è sempre un eufemismo per un missionario. Specie per uno che Phnom Penh ha avuto modo di accompagnarla fin dai primi passi dopo la tragica stagione dei Khmer Rossi. È il racconto di un pioniere quello che ci consegna padre Toni: missionario del Pime, trevigiano, fu lui trent’anni fa il primo a poter entrare nel Paese che Pol Pot aveva trascinato in un tragico girone di terrore e morte.

«Nel 1990 – ricorda padre Vendramin – per migliorare l’immagine internazionale della Cambogia cominciavano ad arrivare le prime aperture da parte del governo di allora. Le suore di Madre Teresa erano venute in visita in febbraio: volevano ritornare stabilmente, ma cercavano un sacerdote per accompagnarle. Avevano incontrato un missionario francese, padre Emile Destombes – il futuro vicario apostolico – che era lì per due o tre mesi con un visto da cooperante. Come lui un altro missionario della congregazione americana di Maryknoll, padre Tom Dunleavy. Ma altri preti non ce n’erano. E le suore dicevano al governo: torneremo in Cambogia, sì, ma vogliamo la garanzia di avere un sacerdote con noi per dire la Messa».

Fu così che le Missionarie della Carità contattarono il Pime. «Quando l’allora superiore generale padre Franco Cagnasso mi fece questa proposta  – continua padre Vendramin – stavo vivendo un anno sabbatico: venivo da quindici anni di missione in Bangladesh, stavo studiando teologia alla Gregoriana. Ho chiesto un po’ di tempo per pensare, poi ho dato la mia disponibilità. È stato come rinnovare la mia vocazione missionaria».

Era il 23 novembre 1990 quando il missionario del Pime e quattro suore dal sari bianco bordato di azzurro si imbarcavano da Hong Kong su un volo per Phnom Penh. «Arrivammo senza visto ma con una lettera di invito del primo ministro Hun Sen; all’aeroporto non sapevano che cosa fare… – racconta padre Vendramin -. Dal ministero degli Esteri ci hanno chiesto: “Ma Madre Teresa dov’è?”. “È ammalata, non è potuta venire”, abbiamo detto. In realtà era in Italia in attesa che un aereo la portasse in Albania con un carico di medicine e generi alimentari».

Ospiti inizialmente in una guest house del governo, per loro l’impatto con la realtà del genocidio fu subito pesante. «Tutta la Cambogia era ridotta a un campo di lavori forzati e di sterminio del suo stesso popolo, in nome di un’ideologia aberrante e criminale», scriveva padre Toni in una lettera indirizzata agli amici da Phnom Penh il 12 dicembre 1990. Da dove, allora, cominciare a ricostruire? «Il governo aveva chiamato le suore con l’idea di far partire con loro un’opera umanitaria in collaborazione con la Croce Rossa – ricorda -. Pensavano a una casa per i mutilati dalle mine; le suore però non se la sentivano. Subito hanno tentato di raccogliere gli ammalati o i mendicanti che dormivano per strada. Poi hanno puntato più sui bambini abbandonati o malati di Aids. Col tempo questi ultimi li hanno affidati a un’altra congregazione cattolica, ma ancora oggi continuano a seguire i bambini denutriti, disabili, abbandonati. E in un’altra casa si prendono cura degli adulti malati di Aids o tubercolosi e di altri malati segnalati dagli ospedali o dal ministero degli Affari sociali».

Gli spazi per una presenza pastorale all’inizio erano pochissimi. «Non potevo muovermi oltre un raggio di venti chilometri da Phnom Penh – racconta ancora il missionario del Pime -. Per uscire bisognava avere il permesso dei ministeri e della Provincia; lo chiedevi e te lo rilasciavano quando era già scaduto. Solo con l’arrivo delle Nazioni Unite per le elezioni del 1993 la libertà di movimento è migliorata e si è potuto cominciare anche a riorganizzare la Chiesa».

A quel punto intorno a padre Toni è potuta crescere anche la presenza del Pime: inizialmente attraverso l’ong New Humanity e poi anche al servizio della Chiesa locale, con una comunità che conta oggi dieci missionari.
«Non ho mai avuto rimpianti – commenta padre Toni guardando indietro a tutta questa storia – . Venire qui in Cambogia è stata per me un’esperienza molto profonda. Del Vangelo all’inizio non potevo parlare un granché; di chiese non ce n’erano, ci si trovava nelle case private a celebrare la Messa. Alla fine del 1990 siamo riusciti ad avere indietro un dormitorio del seminario minore: è lì che abbiamo celebrato la prima Messa di Natale, un’esperienza fortissima. Quella sala viene usata ancora oggi per le Messe in inglese la domenica mattina».

Come guarda alla Phnom Penh di oggi? «La città è cresciuta moltissimo – ci risponde -. Adesso svolgiamo il nostro ministero nella nuova Phnom Penh dove c’è il centro pastorale della diocesi e sorgerà la futura cattedrale, insieme all’ospedale, alla scuola tecnica dei salesiani… Oggi sono migliaia le auto che intasano le strade, le moto ancora di più, i risciò sono stati sostituiti dai tuk tuk che adesso si chiamano anche con l’app. Le città funzionano molto meglio, c’è l’acqua, ci sono i servizi cittadini. Un milione tra ragazzi e soprattutto ragazze lavorano nelle fabbriche del settore tessile: ora esiste un ceto medio di basso livello che prima non esisteva».

Le difficoltà in Cambogia non sono comunque finite. «Le ferite del passato restano – continua padre Vendramin – più o meno aperte o nascoste. Adesso a livello politico l’opposizione praticamente è stata abolita: o sono in prigione o sono in esilio. C’è un controllo che non riguarda solo la politica ma anche gli stranieri che lavorano con le organizzazioni internazionali. Ed è un problema che tocca anche la Chiesa: nonostante gli accordi firmati nel 1994 dalla Santa Sede con la Cambogia ancora non vogliono chiarire il nostro status giuridico. Ad alcuni missionari è capitato di sentirsi dire: “Il tuo visto non è regolare”. “È quello che ci danno”, hanno risposto. “Per me andate avanti – ha detto il funzionario di polizia – però sappiate che non siete regolari”. Siamo messi tutti così…».

Anche la Chiesa cambogiana vive le fatiche di tutti: «Ogni anno celebriamo qualche centinaio di battesimi tra le tre circoscrizioni ecclesiastiche – annota il missionario -. Però i cambogiani nella Chiesa locale sono ancora minoranza: la maggioranza dei cattolici sono vietnamiti venuti in Cambogia. Questo crea un po’ una situazione di disagio, perché tra i due popoli c’è un’inimicizia atavica. Ancora recentemente il governo ha dato una stretta ritirando ai vietnamiti i passaporti e le carte di identità che aveva loro rilasciato. Li hanno sostituiti con un nuovo documento che li classifica come immigrati regolari. Ma questa è tutta gente che è nata in Cambogia o vive qui da venti o trent’anni.

Stanno rimettendo in discussione tutto: sono controllati, non possono avere conti in banca, hanno grosse difficoltà. I benestanti pagano qualcuno e così risolvono il problema. Ma i poveri non possono. E ce ne sono tanti anche nelle nostre comunità».

Padre Vendramin oggi risiede nella casa del Pime di Phnom Penh. «Al mattino dico Messa in una delle comunità delle suore – spiega -. Poi sono a disposizione per sostituire qualche sacerdote che ha un impegno, un incontro… Fino alla fine del 2018 una volta al mese andavo a visitare i carcerati. Poi il nuovo direttore del penitenziario ce lo ha impedito dicendo che non avevamo il permesso. In realtà ci era stato rilasciato per tre anni. Ora il vescovo ha chiesto alla Caritas di includere il servizio pastorale in quello sanitario che già viene svolto in carcere, così speriamo di poter riprendere.

Nelle carceri in Cambogia trovi di tutto: detenuti comuni, detenuti politici, attivisti per i diritti umani… Tra i reclusi ho incontrato cattolici nigeriani, filippini, anche latino-americani: sono dentro per spaccio di droga o altri reati. Un detenuto musulmano del Bangladesh mi ha raccontato che aveva studiato nelle scuole cristiane. Lo avevano arrestato per terrorismo ma lui diceva di aver semplicemente aperto un ristorante bengalese. Probabilmente dava fastidio a qualcuno e così lo hanno accusato…».

Tra le gioie, la più grande resta vedere il cammino che pur tra mille fatiche le comunità cristiane cambogiane stanno compiendo: «Da qualche anno – racconta padre Toni – il vescovo a Phnom Penh ha iniziato la scuola della fede: corsi di teologia per i laici impegnati, una formazione di base per i catechisti. Iniziative che vanno avanti e rafforzano la comunità. In tutte le missioni c’è l’asilo, a volte la scuola elementare. Insieme a strutture di base, case per i disabili, altre iniziative sociali sia a livello diocesano che nazionale con la Caritas. Cresce la città, sì. Ma a piccoli passi sta crescendo anche questa piccola nostra Chiesa».