La doppia vocazione dei fratelli

La doppia vocazione dei fratelli

Sia missionari sia professionisti, con un unico obiettivo: l’annuncio del Vangelo. Alessandro Albani si prepara a essere missionario laico

«Nel seminario del Pime di Pune, in India, ero l’unico straniero, l’unico che non studiava filosofia, l’unico che non sarebbe diventato prete. Ma nessun seminarista mi trattava in modo diverso dagli altri. Anzi, mi hanno detto che ero per loro il testimone di una vocazione missionaria così “pura” da venire persino prima di quella sacerdotale».

A parlare è Alessandro Albani, ventottenne originario di Carugate, in provincia di Milano, al rientro da un viaggio di sei mesi in India che lo ha portato a visitare diverse missioni del Pime. Alessandro, oltre a essere un terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva, una branca piuttosto specifica del mondo del lavoro, è anche un candidato fratello, uno dei futuri missionari laici dell’Istituto. Branca altrettanto specifica nel mondo delle vocazioni. I mesi passati in India sono parte del suo ultimo periodo di formazione prima di essere definitivamente accettato all’interno del Pime. Ha visitato le missioni di Eluru, dove opera un altro fratello, Enrico Meregalli (insieme a lui nella foto qui accanto), quella di Mumbay, tra le realtà caritative della città, quella di Baghdoghra, con i tribali sul confine con il Bangladesh, e quella di Jaipur, dove le Missionarie dell’Immacolata hanno aperto un centro di degenza per bambini con disabilità che vivono negli slum. Un’infarinatura generale della vita nel subcontinente indiano prima di tornare in Italia e ripartire poi per il Myanmar, dove inizierà a svolgere il suo lavoro di terapista.

La maggior parte del suo tempo in India, però, Ales­sandro l’ha spesa nel seminario filosofico di Pune, che prepara i giovani indiani prima di inviarli a Monza a completare la formazione. Lì Alessandro studiava inglese insieme agli altri seminaristi. «Le dimensioni ridotte della comunità di Pune sono uno dei motivi per cui il seminario funziona così bene», racconta. «Ogni anno ci sono venti o venticinque seminaristi al massimo, il che, facendo un paragone con Monza, rende molto più semplice entrare in relazione con tutti. E rende più facile ai formatori identificare dinamiche che potrebbero poi creare problemi. Padre John Berchman e padre Jeevankumar Juvvala (rispettivamente rettore e vicerettore del seminario) gestiscono queste cose con un metodo davvero efficace e con delle idee innovative». Una di queste è per esempio quella dell’orto personale. Il seminario di Pune, che come ogni seminario che si rispetti è dotato di campo da calcio, da pallavolo e da pallacanestro, più uno da badminton (siamo pur sempre in India), ha anche a disposizione del terreno che è stato diviso tra i seminaristi. Ognuno di loro deve prendersene cura per un’ora al giorno.

«In India è pratica diffusa quella di fare un anno di regency dopo i primi due di formazione filosofica», spiega Alessandro. «Si tratta di un periodo speso in un altro Stato rispetto a quello di origine del seminarista, in cui si lavora “sul campo” in realtà caritative. Padre John Berchman ha inventato la work regency: un anno durante il quale il seminarista fa una vita normalissima fuori dal seminario, da laico, vivendo e lavorando, anche se continuando a essere seguito dal proprio padre spirituale. Per chi è entrato a Pune da giovanissimo è un modo per fare esperienza della vita di tutti, ma soprattutto un banco di prova per la vocazione sacerdotale».

Spiegare di essere un missionario ma non un sacerdote, per Alessandro, non è stato facile. «I cristiani indiani riescono a comprenderlo, con un po’ di fatica. Per i non cristiani, invece, è inconcepibile il consacrare la vita a Dio senza essere prete, così come il fatto di scegliere di vivere lontano da casa e senza una famiglia». A pensarci bene, nemmeno in Italia è una cosa facile da far capire. Ma la soluzione potrebbe essere non considerare quella dei fratelli del Pime come una vocazione, quanto come una doppia vocazione: una professionale, una missionaria. E la storia di Alessandro sembra confermare questa teoria.

«Da ragazzo ho sempre evitato i malati, non mi sentivo a mio agio. Poi, a 17 anni sono andato a fare un’esperienza alla Fondazione Don Gnocchi; mi è piaciuto così tanto che la settimana dopo sono tornato dalla responsabile per chiederle cosa dovevo studiare per lavorare lì. All’inizio non riuscivo ad ammetterlo, ma ho sempre vissuto il mio essere terapista come una vocazione, non come un mestiere. Questo è il primo motivo per cui ho scelto di intraprendere il cammino di fratello del Pime: non voglio rinunciare al mio lavoro e, se sei un sacerdote, devi essere prima di tutto un ministro dei sacramenti. Tra l’altro mi sento inadeguato come cristiano, figurarsi ad essere prete». Ma poi, nella vita di Alessandro, è arrivato l’incontro con il Pime. «Ho sempre avuto una vita attiva in parrocchia», racconta. «Ma consideravo la missione un ambito non di mia competenza. Quando ci hanno proposto un viaggio in Thailandia non volevo fare altro che quello: un viaggio in Thailandia. Ma la visita alla missione di padre Valerio Sala, missionario del Pime, mi ha fatto fare esperienza di qualcosa che in fondo sapevo già: essere cristiani non è scontato. Mi ha fatto riflettere sulla mia vita e sulla fortuna che ho avuto a nascere in un Paese, in una famiglia, in un contesto in cui incontrare Dio è semplice e in cui non ci manca nulla. Ho iniziato a sentirmi quasi in debito con la vita e con il Signore. Tornato in Italia c’è stata un’escalation velocissima: prima volevo fare Giovani e Missione, poi volevo entrare nell’Associazione Laici Pime, poi ho iniziato un cammino di discernimento… Nel giro di pochi mesi sono arrivato al seminario di Monza per esporre il mio dilemma: volevo fare il missionario, ma non volevo fare il prete. Appena me ne hanno parlato ho capito che la strada del fratello era quella che cercavo».

Quello che è certo è che i fratelli del Pime non sono missionari incompleti o di serie B. «La prima cosa è l’annuncio di Cristo, il testimoniare, ognuno in maniera diversa, che esiste un modo bello di vivere, quello del Vangelo», spiega Alessandro. «Questo è il cuore del Pime, quello che ci accomuna tutti. La distinzione tra sacerdoti e fratelli è secondaria. La missione viene prima di tutto».