La lunga marcia delle iraniane

La lunga marcia delle iraniane

Le ragazze sono il 65% degli universitari ma restano vittime di leggi discriminatorie e costrizioni sociali non più tollerabili. Le loro lotte al centro del libro di Anna Vanzan che sarà presentato al Pime di Milano

In Iran si può essere una studentessa da trenta e lode o un’imprenditrice di successo, però non si può esibirsi su un palco come cantante solista. Né togliersi il velo in pubblico, né tantomeno accedere ai vertici della magistratura o alla gerarchia sciita. Se oggi le iraniane costituiscono il 65% degli studenti universitari del Paese e sono presenti in quasi tutti i settori professionali – molte hanno carriere prestigiose – restano tuttavia vittime di leggi discriminatorie e costrizioni sociali non più tollerabili. Per questo le loro lotte per promuovere i propri diritti e il progresso della società iraniana in generale, il cui volto è stato profondamente segnato dalla rivoluzione islamica di 41 anni fa, sono così significative.

«Rispetto ad altri contesti mediorientali pur critici sul fronte dell’emancipazione femminile, le iraniane vivono in un sistema patriarcale sancito dalla stessa Costituzione, eppure hanno avuto una reazione forte, indomita, che ha saputo declinarsi in forme molteplici, dall’impegno nella società civile all’attivismo politico alla produzione artistica». A sottolinearlo è Anna Vanzan, iranista che all’altra metà del mondo persiano ha dedicato decenni di studi e ricerche – intrisi di una viscerale passione personale – e diversi libri. L’ultimo, Donne d’Iran tra storia, cultura e politica, edito dall’Istituto per l’Oriente Carlo Alfonso Nallino (pp. 172, euro 16), sarà presentato al Centro Pime di Milano il 24 marzo.

Professoressa Vanzan, lei racconta un percorso lungo e non univoco. Si va dal giornalismo al femminile in epoca Qajar al femminismo di Stato sotto i Pahlavi, che portò alcuni progressi sul fronte dell’istruzione ma non un vero mutamento sociale e culturale. E poi la rivoluzione islamica, che all’inizio fu sostenuta da molte donne ma che non ha mantenuto le sue promesse. C’è un filo conduttore in questo cammino delle iraniane verso la loro emancipazione?

«Fin dall’inizio la lotta per l’uguaglianza, la giustizia e i diritti assume risvolti culturali. Le prime donne che protestano lo fanno tramite la loro arte, poi vengono le testate giornalistiche, in seguito, dopo la Seconda guerra mondiale, si sviluppa la prosa, poi ancora le arti visive… Le esigenze restano le stesse, cambiano e si affinano i mezzi espressivi. Oggi molte registe e attrici utilizzano il cinema per promuovere le loro istanze. Andare a vedere un film o una pièce teatrale può assumere una valenza forte di dissenso, o di sostegno a una causa».

Lei punta l’attenzione anche sulle riformatrici religiose, le cosiddette “femministe islamiche”: perché sono importanti?

«Il femminismo laico non è morto ma si è dovuto modificare perché le risposte del patriarcato sono state molto dure. Molte donne, tra cui anche alcune deluse della rivoluzione islamica del ’79, a coloro che le volevano emarginare in nome dei Testi sacri hanno controbattuto appellandosi proprio alle fonti della religione. Se la legge divina è immutabile – hanno detto – la sua interpretazione è umana e passibile di essere riformata e cambiata. Senz’altro la strada sarà molto lunga prima che donne con una formazione di dottrina religiosa riescano ad arrivare alla stanza dei bottoni, ma questo movimento si è spostato in altre zone del mondo islamico e spesso collabora con gruppi che si ispirano a una tradizione più laica».

Che cosa vuole oggi il movimento femminile iraniano? C’è un’unità di aspirazioni tra laiche e religiose?

«La battaglia comune più importante è quella per riformare il diritto di famiglia, che ha nelle sue pieghe degli enunciati chiaramente limitativi per le donne. Nonostante alcuni notevoli cambiamenti in positivo registratisi in questi anni, resta sempre quella che potremmo definire una “velata minaccia”. Ad esempio, la legge sulla lapidazione in caso di adulterio è stata sospesa e non è applicata da anni, ma non è mai stata cancellata: resta dunque come una sorta di spada di Damocle sulle iraniane. Queste ultime chiedono non solo modifiche legislative specifiche, per esempio un trattamento più equo in caso di divorzio, ma una riforma profonda e globale della società, che loro stanno anticipando con l’esempio quotidiano, imponendo nello spazio pubblico la loro presenza, che la rivoluzione voleva eliminare. Questa presenza assume poi stili diversi a seconda delle singole sensibilità. Non dobbiamo dimenticare che la società iraniana è molto variegata: il Paese non è affatto uniforme come di solito viene rappresentato all’esterno».

L’insoddisfazione però accomuna moltissimi cittadini. Persino l’esasperazione, come dimostrano le ricorrenti proteste di piazza.

«Tra i giovani c’è molta insofferenza per un’infinità di norme liberticide. Non si tratta solo dell’obbligo del velo per le ragazze, ma di molte forme di censura, dei divieti, come quello di organizzare un certo tipo di spettacoli o, per le donne, di esibirsi come cantanti soliste. Se aggiungiamo il fatto che economicamente il Paese è stretto in una morsa, sia per la cattiva gestione interna sia a causa delle sanzioni internazionali, capiamo perché questi ragazzi sono esasperati. Il loro grado di istruzione è esponenzialmente migliorato, il numero di diplomati e laureati è cresciuto moltissimo ma i giovani non trovano un lavoro consono alla loro formazione. Sulla base di questa insoddisfazione generale, le ricorrenti crisi, dai disastri naturali dell’ultimo anno fino allo scandalo dell’aereo ucraino abbattuto per errore, scatenano deflagrazioni sociali massicce. Dagli esiti imprevedibili».