Aspettando il Papa nell’Iraq ferito

Aspettando il Papa nell’Iraq ferito

Lo storico viaggio di Francesco, in programma dal 5 all’8 marzo, è atteso con trepidazione non solo dai cristiani, che rischiano di scomparire dalle loro terre, ma da un intero popolo, esausto dopo decenni senza pace. Le loro testimonianze in questo articolo e nella serata che mercoledì 3 alle 21 proporremo in streaming sul canale YouTube del Centro Pime con padre Benham Benoka dalla Piana di Ninive

 

Un pellegrinaggio nella Terra santa del patriarca Abramo, dei profeti Ezechiele e Giona, là dove fu scritta parte della Bibbia e dove il popolo della Promessa soffrì l’esilio babilonese. Ma lo storico viaggio di Papa Francesco in Iraq, il primo dell’era pandemica, in programma dal 5 all’8 marzo, avrà anche tanti altri significati importantissimi: per i cristiani, che di fronte a violenze e abusi stanno abbandonando quella che per secoli è stata casa loro, ma anche per tutti gli iracheni, esausti dopo decenni senza pace, vessati dalle interferenze esterne che non li lasciano liberi di costruire il proprio destino e da una politica che non riesce ad andare oltre i settarismi. E, oggi, duramente colpiti dalla pandemia di Coronavirus che ha messo in ginocchio un’economia già provata.

Tutte queste difficoltà e incertezze, che hanno messo in forse fino all’ultimo l’effettiva possibilità per il Pontefice di raggiungere un Paese dove tra l’altro la sicurezza non può essere garantita al cento per cento, rappresentano esattamente la ragioni per cui Francesco desidera fortemente questo viaggio e ha fatto di tutto, negli ultimi anni, per renderlo possibile. Una visita sognata da Giovanni Paolo II, che dovette alla fine rinunciarvi a causa di ragioni geopolitiche – erano gli anni dell’embargo al dittatore Saddam Hussein – e che ora sarà la prima di un Pontefice nella Terra dei due fiumi.

«Accogliere Papa Francesco a Mosul, dove abbiamo vissuto l’inferno dell’Isis, sarà per noi una ventata di speranza, ci aiuterà ad avere ancora fiducia in un Iraq plurale». Omar Mohammed non trattiene la gioia. Professore universitario di storia, nei tre anni di occupazione della città da parte dei tagliagole del Califfato nero (fino al settembre 2017) non smise mai di denunciare sul suo blog, con lo pseudonimo di Mosul Eye, l’agonia dell’antica Ninive, luogo simbolo di convivenza di cui i fondamentalisti volevano piegare lo spirito bruciandone le biblioteche e silenziandone le voci libere. «L’Isis non è riuscito a cancellare la nostra identità, ma le ha inferto duri colpi e oggi ci troviamo ad affrontare nuove sfide», racconta il professore, musulmano sunnita. «Se da una parte la ricostruzione è in atto e l’economia si sta lentamente rimettendo in moto, dall’altra l’area di Mosul e della Piana di Ninive è ora controllata dalle milizie sciite vicine all’Iran, in un sistema corrotto e asfissiante che ostacola il pensiero critico e non ci permette di ripartire, tra l’altro soffiando di nuovo sul fuoco del risentimento dei sunniti».

Per questo Mohammed resta convinto dell’importanza di operare sul piano culturale per seminare una mentalità aperta tra i giovani. «Sono in contatto costante con l’arcivescovo caldeo Najib Mikhail Moussa, che mise in salvo dalla furia dei fondamentalisti un enorme patrimonio di manoscritti cristiani antichi, e con i suoi confratelli domenicani che, nel loro impegno di ristrutturazione della chiesa di Nostra Signora dell’Ora, stanno realizzando anche un centro socio-culturale aperto a ragazzi cristiani, musulmani, yazidi…».

Il restauro del luogo di culto che sorge nel cuore della città vecchia – lo scorcio del suo campanile a fianco del minareto di al Hadba è uno dei più noti del quartiere storico – rientra nel progetto Unesco, finanziato dagli Emirati Arabi, che comprende anche la ricostruzione della chiesa siro-cattolica di al Tahera e quella della celebre moschea di al Nouri, in cui l’autoproclamato califfo al Baghdadi annunciò, nel giugno 2014, la nascita dello Stato Islamico. Ma altrettanto importante è la tranche dell’intervento, sostenuta dall’Ue, grazie alla quale il convento dei domenicani diventerà fulcro di un programma di formazione professionale: il lavoro resta l’esigenza primaria da queste parti. Soprattutto per le nuove generazioni.

«Abbiamo piccoli imprenditori pronti a mettersi in gioco, start up basate sulle nuove tecnologie, iniziative accademiche interessanti: questi giovani hanno tante buone idee ma hanno bisogno di sostegno», conferma Omar Mohammed. «L’ho detto personalmente ai politici di Bruxelles, spiegando che proprio la nostra eredità culturale è una risorsa da valorizzare anche economicamente». Certo, una vera ripartenza sarà possibile «solo in un contesto in cui siano garantite sicurezza e tolleranza. Su questo, le autorità islamiche devono avere il coraggio di esporsi, anche condannando le violenze perpetrate ai danni delle minoranze nel nome dell’islam. E io spero con tutto il cuore che la presenza di Papa Francesco incoraggi queste voci a farsi sentire».

È una speranza condivisa da molti, anche nell’ottica di vedere tornare a casa almeno una parte dei tanti fedeli fuggiti dalla loro terra storica: quella Piana di Ninive dove il Papa si recherà proprio per incoraggiare chi non si è ancora arreso all’idea di lasciare per sempre l’Iraq. Non molti: se prima del 2003 i cristiani nel Paese erano quasi un milione e mezzo, oggi si aggirano intorno alle 300-400 mila unità. «A Bartella sono rientrate 1.200 famiglie, mentre circa 400 sono ancora profughe nel Kurdistan iracheno», racconta don Behnam Benoka. Sacerdote siro-cattolico, don Behnam è parroco in questa città dove, fino a pochi decenni fa, i nuclei cristiani erano più o meno quattromila. E poi che cosa è successo?

«Intorno al 1980 fu Saddam a portare le prime famiglie musulmane qui, a Karamless, a Qaraqosh, tutti centri tradizionalmente aramaici, cominciando una politica di cambiamento demografico che si è aggravata dopo il 2003, con l’accordo tra americani e curdi e i gruppi sciiti shabak che oggi, con le loro Forze di mobilitazione popolare (in arabo Hashd Al-Shaabi), vogliono sbarazzarsi di noi per sempre, per creare una zona sciita qui nel Nord del Paese». E in mezzo c’è stato l’Isis… «Ma per fortuna il cosiddetto Califfato è stato sconfitto. Però, visto che proprio le milizie sciite hanno contribuito alla cacciata dei terroristi sunniti, oggi hanno ancor più mano libera di spadroneggiare. Siamo passati da un estremismo all’altro», commenta sconsolato don Behnam.

Le pressioni si manifestano in vari modi nella vita quotidiana: «Molestano donne e bambini, sparano davanti alle chiese, aprono illegalmente attività commerciali rubando opportunità di lavoro ai locali cristiani… E poi cercano di accaparrarsi i terreni, costruiscono abusivamente migliaia di case e appartamenti, con la complicità delle autorità locali che sono tutte vicine agli shabak. E, qualche volta, un cristiano viene ammazzato o sparisce. Ma visto che si tratta di una persecuzione silenziosa, nessuno ne parla».

Il sacerdote iracheno spiega che il ritorno è difficile a causa di questa insicurezza, della mancanza di opportunità professionali e anche di un trauma ben lontano dall’essere guarito. «Per chi ha provato il terrore del fondamentalismo, è uno shock vivere in un contesto che è stato forzatamente e rigidamente islamizzato, con le nuove moschee da cui il richiamo alla preghiera risuona ad altissimo volume giorno e notte, con la città che in occasione delle feste religiose sciite si riveste tutta di nero o di verde, con i manifesti dell’ayatollah iraniano Khamenei e dei miliziani uccisi che tappezzano tutti i muri, anche quelli dei siti archeologici cristiani. Finché qualcuno continua a seminare ideologie intolleranti, è impossibile ricostruire la fiducia».

Eppure, la speranza non si spegne. E, a sua volta, si nutre di piccoli segni, come le chiese riedificate, che risuonano di nuovo degli antichi canti in aramaico. Su quella di Qaraqosh, che il Papa visiterà, è appena stata collocata una statua della Madonna realizzata da un noto artista cristiano locale. «Tutti qui speriamo che il Santo Padre, che in questi anni ci ha sempre sostenuti, anche materialmente, possa parlare dei nostri problemi con i governanti locali e spingerli a trovare soluzioni da cui dipende la sopravvivenza stessa dei fedeli di Gesù in questa zona».

Molti di essi si trovano ancora oltre il confine con la regione autonoma del Kurdistan, dove si erano rifugiati, senza contare quelli – almeno 55 mila – che da lì sono definitivamente espatriati, perlopiù in Occidente. Padre Samir Youssef, che è parroco a Enishke e si prende cura di altri cinque villaggi dell’eparchia caldea di Amadiya-Zakho, ne ha accolti migliaia. «Qui erano già arrivati i profughi in fuga dalla guerra in Siria, poi, al tempo dell’Isis, è stata la volta dei cristiani e degli yazidi iracheni. Li abbiamo sistemati nelle parrocchie, nelle chiese e negli asili, negli hotel, nelle vecchie case disabitate. Fuggivano nel cuore della notte e il mattino dopo arrivavano qui, disperati, senza più nulla se non i vestiti che avevano indosso», ricorda padre Samir. «Nel caso degli yazidi, che erano rimasti bloccati per settimane sul monte Sinjar, non avevano nemmeno le scarpe».

Per accogliere, nutrire, scaldare questa gente «fondamentale è stata la macchina della solidarietà che si è messa in moto subito e non si è mai fermata. Grazie anche all’aiuto del Pime attraverso AsiaNews, ancora oggi a Enishke e nei dintorni distribuiamo ogni mese più di 240 pacchi alimentari, non solo per i profughi ma anche per i tanti bisognosi, aumentati con la pandemia di Coronavirus. Paghiamo il kerosene, i farmaci, sosteniamo gli studi di centinaia di studenti, anche universitari… Grazie alla Provvidenza, che mi sorprende ogni giorno, cerchiamo di essere segno dell’amore di Dio, nonostante l’odio e la violenza».

Che, purtroppo, anche qui è all’ordine del giorno. «Visto che siamo molto vicini al confine con la Turchia, subiamo gli effetti dello scontro tra i militanti del Pkk e l’esercito turco, i cui raid provocano continuamente vittime civili innocenti -, racconta padre Youssef -. Per questo il Papa, che porterà una parola di pace, è così atteso non solo dai cristiani ma da tutte le comunità».

Senza dubbio, il messaggio di Francesco avrà un valore particolare per le tante minoranze che storicamente abitano la Mesopotamia. Ad esserne convinto è Saad Salloum, giornalista e professore associato di Scienze politiche all’università al Mustansiriyya a Baghdad, che proprio alla tutela della pluralità irachena ha dedicato anni di studio e di impegno attraverso la Fondazione Masarat, che presiede. «Quindici anni fa, quando abbiamo cominciato a pubblicare la nostra rivista, ci sentivamo spesso chiedere: “Ma perché vi occupate delle diverse comunità? Siamo un solo popolo, lavoriamo per redigere una nuova Costituzione o per organizzare le elezioni!”. Ma poi, dopo l’ascesa dell’Isis con i suoi orrendi crimini contro le minoranze, la gente ha cominciato a capire l’importanza di quello che facevamo. A chiedersi: chi sono questi yazidi? A conoscere i turkmeni, i kakai, i mandei, i bahai, oltre agli ebrei e le varie confessioni cristiane presenti nel Paese… Penso che oggi ci sia una chance di promuovere la pluralità dell’Iraq, anche a livello di azione politica».

Una cosa, però, è sapere che esistono tanti gruppi, etnici e religiosi, un’altra è fidarsi reciprocamente. Salloum, impegnato a vari livelli per il dialogo tra le fedi, lo sa bene. «Dopo le violenze di questi anni, la ricostruzione del tessuto sociale è un cammino lungo e parte dai giovani. Per questo, insieme a varie istituzioni, ho promosso percorsi per creare, attraverso l’incontro e l’impegno condiviso tra ragazzi e ragazze di differenti background, centinaia di “ambasciatori del dialogo” che, in tutte le aree del Paese, portino avanti l’idea di un Iraq oltre i settarismi. Lo stesso sognato dai protagonisti delle manifestazioni dell’ottobre 2019, la cui voce, che la repressione ha cercato di zittire nel sangue di centinaia di vittime, sarà sicuramente rilanciata dal Papa. Che, anche in occasione dell’incontro interreligioso nel luogo di origine del comune patriarca Abramo, valorizzerà gli sforzi di tutti quelli che credono nel dialogo come unica chiave per il futuro dell’Iraq».

 

IL VIAGGIO
Una palma, il Tigri e l’Eufrate e una colomba a fianco del motto “Siete tutti fratelli”. È il logo del viaggio del Papa in Iraq, in programma dal 5 all’8 marzo. Tra le tappe Baghdad, Ur – legata alla memoria di Abramo -, Erbil, nel Kurdistan iracheno, Mosul e Qaraqosh, nella Piana di Ninive e Najaf per l’incontro con le autorità sciite.

LA SERATA IN STREAMING

Al viaggio di Papa Francesco in Iraq sarà dedicata la serata del 3 marzo dei “mercoledì del Pime”. Alle 21 sul canale YouTube del Centro Pime dialogheremo con don Benham Benoka dalla Piana di Ninive sulle attese dei cristiani dell’Iraq a poche ore ormai dall’arrivo di Papa Francesco.

LA CAMPAGNA
Grazie alla Campagna di AsiaNews e Fondazione Pime “Adotta un cristiano di Mosul, lanciata nell’agosto 2014, sono stati inviati per i cristiani sfollati nel Kurdistan iracheno oltre due milioni di euro. La raccolta è ancora aperta perché i bisogni restano tanti, come raccontiamo in queste pagine.
Per aiutare: vedi donazioni.pimemilano.com Fondi ed emergenze – prog. AN 02 Adotta un cristiano di Mosul