Kuwait: cosa c’è dietro quella finestra?

Kuwait: cosa c’è dietro quella finestra?

Un video diventato virale qualche giorno fa mostrava una collaboratrice domestica etiope che cadeva dal settimo piano, mentre la padrona di casa filmava senza intervenire. Si è parlato di tentato suicidio, ma ora c’è un’altra versione dei fatti, che rivela lo sfruttamento in cui vivono molti lavoratori migranti nel Paese.

 

Sui social media nei giorni scorsi è diventato virale un video in cui si vede una donna etiope appesa al cornicione di una finestra fuori da un palazzo in Kuwait. A riprendere la scena è la padrona di casa, sua datrice di lavoro. La donna grida disperata chiedendo all’altra di afferrarla, ma lei continua a filmare senza intervenire, finché la prima perde la presa e cade nel vuoto per sette piani. Poi è stata proprio la datrice di lavoro a postare sui social network il video, mentre la domestica – che ha avuto la fortuna di cadere su una lamiera ondulata ed è sopravvissuta – veniva portata in ospedale. Qui il video

Si è parlato all’inizio di un tentato suicidio da parte della domestica, e dopo la diffusione del video le autorità competenti hanno indagato la datrice di lavoro per omissione di soccorso. Ma nel frattempo è emersa un’altra versione dei fatti, che apre uno spaccato sulle condizioni in cui vivono migliaia di lavoratori stranieri, africani e asiatici, nel ricco emirato.

In un altro video pubblicato dall’emittente televisiva etiope Ethiopian TV la domestica racconta la sua versione dei fatti, e cioè che non stava affatto cercando di suicidarsi, ma scappava dalla sua datrice di lavoro che voleva ucciderla. «La signora mi ha spinto in bagno e stava per uccidermi senza che nessuno potesse scoprirlo, avrebbe buttato via il mio corpo come spazzatura, così invece di restare lì sono scappata cercando di salvarmi e poi sono caduta (dalla finestra, ndr) -. Ringrazio Dio che mi ha protetta».

La domestica se l’è cavata con un braccio rotto e contusioni, e nel frattempo la sua datrice di lavoro è stata arrestata. La Kuwait Society for Human Rights ha condannato già nei giorni scorsi quanto avvenuto, chiedendo un’indagine ufficiale che è tuttora in corso. La vicenda squarcia di nuovo il velo sulle condizioni di circa 600 mila lavoratori domestici in Kuwait, molti dei quali denunciano abusi, maltrattamenti e sfruttamento. Centinaia ogni anno scappano dai loro datori di lavoro a causa di abusi, tanto che il governo ha creato dei centri di accoglienza per questi casi. Alcuni cercano aiuto presso le loro ambasciate. Ogni tanto qualche vicenda drammatica riesce a emergere e arrivare all’attenzione dell’opinione pubblica: all’inizio di quest’anno una coppia è stata arrestata per aver torturato la propria domestica finché questa è riuscita a fuggire e a chiedere aiuto.

I lavoratori stranieri nei Paesi del Golfo Persico sono 18 milioni su una popolazione di 42 milioni di persone. Provengono soprattutto da India, Nepal, Sri Lanka, Bangladesh, Indonesia, Filippine ed Etiopia. Negli ultimi anni l’Arabia Saudita ha aumentato del 40% il numero di lavoratori domestici stranieri e il Kuwait lo ha visto crescere del 66%. Secondo le organizzazioni non governative ci sono almeno 2,4 milioni di lavoratori domestici migranti in condizioni di semi schiavitù in Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Bahrain, Oman ed Emirati Arabi Uniti.

Dalla fine degli anni ’90 Human Rights Watch pubblica report con le storie e le cifre delle vittime di questa nuova schiavitù, con un occhio di riguardo proprio per le collaboratrici domestiche migranti, che arrivano nei Paesi del Golfo Persico. La maggior parte delle donne è impiegata presso le famiglie locali dove cucina, pulisce la casa e spesso crescere i figli della famiglia presso cui lavora, ricevendo in cambio vitto, alloggio e uno stipendio sufficiente per mantenere una famiglia nel paese d’origine. Spesso però la realtà è diversa, ha ricordato Hrw in un recente report sull’Arabia Saudita, e si materializza con il sequestro del passaporto all’arrivo, l’impossibilità di cambiare lavoro senza il consenso del datore di lavoro, orari impossibili e nessun riposo settimanale». Nei Paesi del Golfo vige la Kafala, un sistema di reclutamento e garanzia che assomiglia pericolosamente all’acquisizione di uno schiavo. Di fatto un ufficio di collocamento nel paese d’origine trova un datore di lavoro disposto a sponsorizzare il viaggio del lavoratore immigrato, che da quel momento non può cambiare posto di lavoro per tutta la durata del contratto.

Lo scorso anno per la prima volta il governo del Kuwait ha approvato una legge che riconosce una serie di diritti ai lavoratori domestici migranti, come il giorno di riposo settimanale, 30 giorni di ferie e un trattamento di fine rapporto. In occasione della coppa del mondo che si giocherà nel 2022 in Qatar, l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) ha dato tempo fino a novembre di quest’anno al governo del Paese ospitante per approvare delle riforme che mettano fine agli abusi nei confronti dei migranti.