«Il Papa ad Al Azhar e la mia Siria»

«Il Papa ad Al Azhar e la mia Siria»

Suor Carol Tahhan commenta le parole di Francesco in Egitto a partire dalla situazione martoriata del suo Paese: «Un invito a darsi da fare per la pace»

 

«Quando parla papa Francesco incide nei cuori perché il suo pensiero è di una logica, di una ricchezza e di una umiltà profonda. E questa volta ha toccato un tasto molto importante».

Siriana di Aleppo, suor Carol Tahhan spiega come le parole del pontefice, pronunciate nel corso della visita apostolica in Egitto il 28 aprile scorso, siano un invito forte a «darsi da fare» per la pace. Un invito – dice – «che è rivolto a chi ha la capacità, a chi lo desidera, ai giovani e ai futuri uomini politici».

Al Cairo, Bergoglio aveva preso parte alla conferenza sulla pace, organizzata dall’università di Al-Azhar, il massimo centro teologico dell’Islam sunnita, dove si formano centinaia di imam di tutto il mondo. «In quanto responsabili religiosi – aveva esordito il Papa – siamo chiamati a smascherare la violenza che si traveste di presunta sacralità». La radice dell’odio è invece, per Francesco, nel disagio economico e nella negazione dei diritti civili: «Per prevenire i conflitti ed edificare la pace è allora fondamentale adoperarsi per rimuovere le situazioni di povertà e di sfruttamento, dove gli estremismi più facilmente attecchiscono, e bloccare i flussi di denaro e di armi verso chi fomenta la violenza. Ancora più alla radice – aveva insistito – è necessario arrestare la proliferazione di armi che, se vengono prodotte e commerciate, prima o poi verranno pure utilizzate».

Un “J’accuse” che non lascia spazio a molti dubbi: per il Papa, in questa guerra, come in tutte le guerre, sono i poteri forti a non volerne la cessazione. «Preferisco non entrare nelle questioni politiche», aggiunge  suor Carol, appartenente alla congregazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice. «Io semplicemente seguo tutti gli insegnamenti del magistero del Papa, e lo facciamo anche come comunità attraverso la preghiera». La prudenza della religiosa è dettata dalla saggezza: vivere in Siria oggi non è facile e anche le parole vanno pesate. «Siamo stanche di questa guerra che dura da sette anni. Sette anni – scandisce -, non un giorno». Ecco allora perché «non voglio entrare in questi particolari, specie nella politica. Dico però questo: che in qualsiasi momento della guerra, dall’inizio alla fine, a pagare è sempre la gente, e specialmente i più poveri».

Premio internazionale “Donne coraggiose 2017”, promosso dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, suor Carol racconta che cosa vuol dire essere sorretti dalla fede in un posto tanto martoriato come la Siria: «Come Chiesa, non rimaniamo passivi a piangere per la guerra». Lo dimostra proprio il Papa – spiega – «che ha sempre avuto ed ha ancora la sua parola ferma sulla guerra, sulla povertà e anche sul mercato delle armi». Però a loro consacrate, chiarisce, «non spetta di parlare di politica» ma pregare, «in unione con il Papa». Suor Carol crede molto nella forza della preghiera, perché sa «preparare i cuori» rendendo possibile il cammino della pace. Una pace che però tarda ad arrivare, anche nella sua Aleppo su cui si sono spenti i riflettori: «Ogni giorno sfidiamo la morte ma non senza paura. Quella ce n’è tanta. Non esiste un posto sicuro ma bisogna rischiare e uscire tutte le mattine per compiere il proprio lavoro perché, comunque, se resto in casa muoio di fame».

Non c’è scelta se non quella di avere fede: «Quando mi sveglio la mattina – racconta – affido letteralmente la mia vita a Dio perché io non so se riuscirò a rientrare oppure no». Laureata in Chimica, la suora lavora nell’ospedale italiano di Aleppo, in un laboratorio in cui si insegna alle donne come cucire, per poi offrire loro anche un lavoro, e in una scuola per bambini: «Prima che iniziasse la guerra avevamo il 95% di alunni cristiani. Con la guerra, invece, le loro famiglie sono andate via e oggi su 200 bambini solo 24 sono cristiani. Tutti gli altri sono musulmani». Moltissime sono le attività organizzate per aiutare i piccoli, ormai traumatizzati da questo inarrestabile conflitto: «Mentre in Europa e negli Usa i bambini giocano con l’Ipad, con il tablet, da noi hanno imparato a riconoscere, dal suono dell’esplosione, la differenza che c’è tra un missile, una bomba o un cannone. Me lo hanno spiegato proprio loro un giorno quando abbiamo sentito una forte rumore. “I cannoni fanno subito boom”, ha detto uno dei più piccini, “mentre i missili prima fanno un lungo fischio, shhhhh, e poi cadono”».

Suor Carol si dice allora «spaventata da questo tipo di danni, prodotti da una guerra tanto violenta che una volta nella nostra zona sono stati lanciati 95 missili in tre quarti d’ora». Manca anche l’acqua, aggiunge, perché i terroristi l’hanno avvelenata buttandoci dentro il petrolio. «Tutto è distrutto, persino le radici, la cultura, specie a Palmira, perché la morte non è solo fisica. È la storia che muore in Siria. Ma come Chiesa continueremo ad insegnare il linguaggio del perdono e, soprattutto, a dimenticare».