Un’altra economia all’ombra dei grattacieli

Un’altra economia all’ombra dei grattacieli

A Dubai, contestata sede della conferenza Onu sul clima, un’azienda ispirata al modello promosso dal Movimento dei focolari punta su solidarietà e attenzione al creato. «Andando controcorrente, la nostra produttività si è impennata»

Operai obbligati a lavorare anche nelle ore più torride della giornata – in violazione delle leggi locali – per terminare in tempo la costruzione degli edifici destinati a ospitare la Conferenza Onu sul clima a Dubai. L’ennesimo scandalo sullo sfruttamento dei lavoratori nel Golfo Persico riguarda gli Emirati Arabi e ha a che fare con la Cop 28, appuntamento che dovrebbe rilanciare gli sforzi internazionali contro il riscaldamento globale e a cui anche Papa Francesco ha manifestato l’intenzione di partecipare.

La vicenda, portata alla luce dal report dell’organizzazione londinese per la difesa dei diritti umani Fair Square, incrocia tante contraddizioni di quest’area del mondo sempre più protagonista a livello globale, in cui convivono sviluppo sfolgorante e violazioni ai danni di milioni di lavoratori immigrati, eccellenza tecnologica al servizio delle energie rinnovabili e business ancora saldamente ancorato all’export di fonti fossili. Eppure, anche qui, un modello di economia solidale e sostenibile è possibile. Per rendersene conto basta una visita ai capannoni della Mas Paints, nell’area industriale di Al Quoz, non lontano dal Burj al-Arab, l’iconico edificio a vela simbolo di Dubai. In quest’azienda che produce vernici lavorano 250 persone, tutte immigrate da mezzo mondo: Asia, Medio Oriente, Africa subsahariana. La maggior parte di loro ha lo stesso background dei nove milioni di stranieri (su dieci milioni di abitanti totali) che stanno materialmente costruendo lo sviluppo dell’Emirato. Le loro storie, però, sono molto diverse da quelle, tristemente comuni da queste parti, che raccontano di contratti trappola, orari di impiego disumani, vite quotidiane recluse nei quartieri-ghetto in cui – nonostante i progressi dell’ultimo decennio – le condizioni di alloggio restano spesso dure e alienanti.

«Qui da noi tutti i dipendenti ricevono stipendi dignitosi, cinque o sei volte più alti rispetto al prezzo di mercato, a ognuno vengono pagate le spese sanitarie per sé e per la famiglia, così come i costi per la scolarizzazione dei figli: l’anno scorso abbiamo festeggiato la prima generazione di ragazzi che sono arrivati alla laurea studiando gratis dall’asilo fino all’università!». Lo racconta con orgoglio Abdullah al-Atrash, manager italo-siriano cresciuto tra l’Arabia Saudita e l’Italia, che da vent’anni ha preso le redini dell’azienda di famiglia, fondata dal padre a Dubai. E l’ha progressivamente trasformata secondo i principi di un’economia «che mettesse al centro l’uomo, il rispetto per la natura, il valore del dialogo».

Abdullah, oggi 45 anni, in gioventù era stato profondamente influenzato da un master all’Istituto Adriano Olivetti frequentato dopo la laurea: «Lì conobbi un modello molto diverso da quello capitalista, un ideale comunitarista in cui la libertà si bilancia con la solidarietà», spiega. «Non sono religioso – premette – ma fin da ragazzo ero stato impegnato nel volontariato e sentivo una forte aspirazione alla giustizia sociale e alla pace, valori che ho poi condiviso con quella che sarebbe diventata mia moglie Manuela, coinvolta nel Movimento dei focolari fin dai tempi dell’università», racconta. Così, quando arrivò a Dubai per prendere in mano l’azienda di famiglia, il giovane aspirante manager rimase «scioccato»: «Gli operai erano pagati pochissimo e ognuno di loro doveva mantenere una media di una decina di persone nel proprio Paese d’origine. Non solo: i dipendenti respiravano prodotti chimici tossici, rischiosi per la loro salute, e le condizioni di lavoro erano pericolose. Per di più, l’azienda inquinava. Di fronte a quello scenario, rifiutai di coinvolgermi nell’impresa».

Fu a quel punto che il padre di Abdullah gli propose un patto: «Mi disse che se fossi riuscito a gestire l’impresa per un anno mantenendo il bilancio in attivo, avrei potuto usare parte degli utili per apportare le modifiche che ritenevo importanti». Neanche a dirlo, l’intraprendente economista vinse la sua scommessa. E iniziò la sua personale rivoluzione, a cominciare dall’ascolto delle esigenze dei dipendenti. «Scoprii che le loro famiglie, nei Paesi di origine, vivevano molto spesso in condizioni abitative pessime, così proposi forme di credito a tasso zero per costruire case in muratura, senza doversi rivolgere alle banche che chiedevano tassi esosi, o peggio ancora agli strozzini. Oggi, tutti hanno case dignitose, dotate di riscaldamento o aria condizionata, oltre che di pompe per depurare l’acqua».

Al-Atrash si attivò anche per raggiungere standard di sostenibilità ambientale e di sicurezza sul lavoro del tutto inediti negli Emirati: «Con adeguate forme di smaltimento dei rifiuti ho azzerato l’inquinamento, ho acquistato macchinari costosi dall’Italia per tutelare la salute dei lavoratori, ho applicato sistemi antincendio e garantito dispositivi di protezione individuale per evitare incidenti». Alla Mas Paints tutti, dai dirigenti ai tecnici, dagli addetti alle vendite agli operai, sono considerati prima di tutto persone, con il diritto inalienabile di avere uno standard di vita soddisfacente per sé e per le proprie famiglie. Ognuno secondo le sue necessità: «Quanto devono essere pagati i dipendenti? La risposta è: in base ai bisogni. E così può capitare che, da noi, un operaio guadagni più di un dirigente: lo stipendio dipende da quanti figli hai, dalla tua situazione personale, dal potere d’acquisto nel tuo Paese d’origine, ma anche dagli scenari macroeconomici, come l’impatto del cambiamento climatico e i disastri naturali che purtroppo in certe aree del pianeta avvengono spesso e con conseguenze tragiche».

Solo dopo l’inizio della sua “rivoluzione” al-Atrash avrebbe realizzato che il modello di impresa a cui aspirava coincideva nella sostanza con quello dell’Economia di comunione, improntata alla gratuità e alla reciprocità, promosso dal Movimento dei focolari, di cui oggi, insieme alla moglie e ai due figli adolescenti, è tra gli esponenti più attivi nel Golfo. «Organizziamo momenti di incontro e iniziative con tanti amici e amiche di tutto il mondo che fanno riferimento a culture e fedi diverse», spiega. Al centro sempre il dialogo e l’ideale della comunione, anche nei rapporti produttivi. «Pian piano abbiamo aggregato tanti imprenditori, grandi e piccoli, che condividono i nostri stessi valori e puntano a condividerli anche all’esterno». Abdullah, che oggi è il coordinatore per gli Emirati Arabi dell’Economia di comunione e anche dell’Economia di Francesco – il movimento internazionale ispirato al santo di Assisi promosso dal Papa -, insegna questo modello in diverse università locali.

Qual è la reazione degli studenti? «La prima domanda che mi sento rivolgere è sempre: “Ma nel Paese più liberista al mondo, dove non c’è uno Stato sociale per gli stranieri e tutti i costi per la sanità e l’istruzione vanno a pesare sulla tua azienda, come fai a non fallire e a essere competitivo?”. La risposta è molto semplice: se tu tratti bene le persone, le paghi il giusto, crei un ambiente sereno e senza quei ghetti che spesso nascono nei contesti con tante minoranze, loro lavorano di più e meglio. I miei dipendenti si sentono veramente parte dell’azienda, non di rado sono loro a trovare le soluzioni ai problemi o le idee di mercato più efficaci: in sintesi, nel gergo degli economisti, la nostra produttività è schizzata alle stelle».

Un messaggio eloquente, in un contesto in cui i lavoratori immigrati sono spesso invisibili e restano tagliati fuori dal benessere che contribuiscono ogni giorno a creare. E un modello, applicato anche nei rapporti con clienti e fornitori, che si è dimostrato contagioso, se è vero che «da quattro o cinque aziende coinvolte nell’Economia di comunione negli Emirati, in dieci anni siamo arrivati a più di ottanta». All’ombra dei grattacieli, cresce silenziosa un’impresa dal volto umano.


FINIS TERRAE

La storia di Abdullah al-Atrash e del suo impegno per un’economia più giusta a Dubai è al centro dell’ultima puntata di “Finis Terrae. Storie oltre i confini”, il programma video realizzato dalla redazione di “Mondo e Missione” e disponibile a questo link