Siria: i muscoli e i pezzi da ricomporre

Siria: i muscoli e i pezzi da ricomporre

L’ANALISI
Che cosa cambia davvero con i raid missilistici di Trump in risposta all’attacco chimico nella provincia di Idlib? Senza un’iniziativa politica seria e con uno sguardo ampio su tutta la regione si va solo verso il prolungamento delle sofferenze per la popolazione civile siriana

 

Una sessantina di missili sparati da una nave nel Mediterraneo contro una basa dell’aviazione siriana poco lontana da Homs. In questo modo, stanotte, Donald Trump ha «mostrato i muscoli» in Siria, dopo che le immagini delle vittime delle armi chimiche nella provincia di Idlib hanno fatto il giro del mondo. Ha marcato con il suo decisionismo la distanza da Barack Obama. Mischiando le carte in una maniera apparentemente clamorosa: appena pochi giorni fa la sua amministrazione aveva aperto espressamente alla possibilità di una permanenza al potere di Bashar al Assad a Damasco; oggi, invece, il segretario di Stato americano Rex Tillerson parla di una «coalizione internazionale» pronta a intervenire direttamente per deporlo.

Che cosa sta succedendo in Siria? Davvero la guerra mondiale a pezzi – di cui parla da tempo papa Francesco – rischia di trasformarsi anche in uno scontro diretto tra Stati Uniti e Russia nei cieli o sul terreno? E il cambio di strategia di Donald Trump è qualcosa di così inaspettato?

Partiamo proprio da quest’ultima domanda. Con buona pace della retorica di queste ore (e dei salti mortali di chi fino a ieri semplicemente tifava pro o contro Trump), la verità è che no, i raid americani di questa notte non sono per nulla arrivati inaspettati. Intanto bisogna capire bene che cosa è successo: i missili su un singolo obiettivo sono soprattutto una prova di forza; il che – almeno per ora – significa massima risonanza mediatica e politica, ma accompagnata dal livello minimo di coinvolgimento militare.

Abbiamo visto tutti che questa flessione dei muscoli è arrivata sull’onda dello sdegno per il raid con le armi chimiche sulla provincia di Idlib. Va aggiunto che la Russia aveva offerto una ricostruzione dei fatti inverosimile persino nell’indicazione degli orari e bloccato al Consiglio di sicurezza dell’Onu una risoluzione che chiedeva un’indagine immediata sull’operato dell’aviazione di Assad. Trump ha deciso per il raid, dunque; ma è una scelta molto meno improvvisata di quanto sembri. Anche le aperture verso Mosca e le mezze frasi di esponenti della sua amministrazione sulla possibilità di una permanenza dell’attuale presidente nella stanza dei bottoni a Damasco, infatti, andavano lette insieme a un dato di fatto inoppugnabile: dal primo giorno in cui si è insediato alla Casa Bianca, Donald Trump ha puntato a rafforzare l’alleanza storica coi sauditi, che di Assad sono i principali nemici. E se nel 2013 la scelta di Obama di non impegnarsi nei raid in Siria – preferendo la strada (fallimentare) del sostegno indiretto alle milizie – aveva incrinato i rapporti tra Washington e Riyad, in questi tre mesi Trump ha adottato una serie di passi molto significativi in direzione opposta: dall’impennata dei toni nella retorica anti-iraniana (con l’accordo sul nucleare apertamente nel mirino), al modo concreto in cui è stato formulato l’executive order anti-immigrazione, fino allo sblocco delle forniture di ulteriori armi per la guerra nello Yemen, Trump ha trattato i sauditi con i guanti bianchi. Ma ha fatto anche di più: qualche settimana fa, durante l’incontro alla Casa Bianca con il premier israeliano Benjamiyn Netanyahu, ha apertamente benedetto «il clima nuovo e del tutto inedito in Medio Oriente» illustrato dal suo interlocutore. Che tradotto in parole povere significa l’asse sempre più solido che – in nome del comune nemico iraniano – si sta formando tra Israele, l’Arabia Saudita e i Paesi del Golfo.

Che cosa c’entra tutto questo con il raid di stanotte? Appena due giorni fa in questa lucidissima intervista, rilasciata all’indomani della strage nella provincia di Idlib, il cardinale Zenari (nunzio apostolico a Damasco) ricordava bene qual è il nocciolo di questo conflitto: l’utilizzo delle dinamiche interne siriane da parte di potenze regionali e internazionali per il perseguimento di propri interessi geopolitici. I bambini vittime delle armi chimiche a Khan Sheikhun (insieme a tutti gli altri che non abbiamo potuto o voluto vedere) sono il frutto di questo scontro tra potenze sulla pelle della popolazione civile siriana. Ma anche il frutto delle giravolte nelle alleanze (il caso della Turchia, che passa con disinvoltura da un fronte all’altro, con partner internazionali sempre pronti a corteggiarla, è ormai da manuale del cinismo). E soprattutto il frutto dell’incapacità di andare oltre il dibattito su Assad per provare a guardare all’intero dramma che il Medio Oriente sta vivendo. Ad esempio agli altri bambini innocenti sepolti sotto i bombardamenti di Mosul dopo essere stati per due anni ostaggio dell’Isis. Bambini che anche loro continuano a morire semplicemente perché non si vuole prendere atto di un dato difficilmente confutabile: è impossibile che l’Iran e gli Stati Uniti combattano insieme in maniera efficace nel nord dell’Iraq se poi si attaccano su fronti opposti nella vicinissima Siria.

Qual è, allora, il rischio vero di queste ore in Siria? Non tanto lo scontro diretto tra Stati Uniti e Russia, ma un ulteriore incancrenirsi delle guerre locali in Medio Oriente. Far scendere queste popolazioni in un girone ancora più profondo dell’inferno che le accompagna ormai da più di sei anni. Con il suo raid Trump ha lanciato a Mosca un segnale chiaro, quello che l’Arabia Saudita e Israele volevano: la fase iniziata nel settembre 2015 con il sostegno dell’aviazione russa ad Assad adesso è finita; l’ipotesi della riconquista militare di tutta la Siria palmo a palmo è un’illusione che Mosca deve smettere di lasciar coltivare a Damasco e Teheran. I casi però diventano due: o si torna al tavolo di un negoziato politico in cui non sia solo Putin a dare le carte, oppure la guerra continuerà ancora a lungo. Per la gioia dell’Isis che in Iraq e in Siria vacilla ma non è affatto sconfitta.

Proprio per questo diventa fondamentale non solo l’iniziativa politica, ma anche la presa di coscienza da parte delle società civili. È ora di farsi sentire per chiedere una Conferenza internazionale sul Medio Oriente in cui anche i popoli oggi ostaggio di questi giochi di potere possano far sentire la propria voce. Papa Francesco parla della guerra mondiale a pezzi. Ma è una tragedia a cui non si può rispondere seguendo lo stesso metodo: la pace, per essere vera, non può mai essere a pezzi. Chiede come primo passo la volontà di ricomporre scenari e fratture; accettando di abbracciare tutte le vittime e non solo quelle «politicamente corrette» per chi sta da una parte o dall’altra della barricata. E accettando anche di farsi carico delle nostre contraddizioni (prima fra tutte: chiedere pace e contemporaneamente vendere armi facendo finta di non sapere dove vanno a finire).

Tenere insieme Idlib e Mosul, i curdi del Sud della Turchia e lo Yemen. Guardare insieme, anziché dividere, frammentare. Può sembrare uno sfizio, ma senza questo primo passo non sarà certo una salve di missili a farci uscire dal pantano in cui il Medio Oriente continua a sprofondare.