Noi, ambrosiani dal mondo

Noi, ambrosiani dal mondo

Originari d’Africa, Asia e Americhe, molti migranti sono parte integrante della società e sempre più anche della Chiesa milanese

 

Carmen viene dal Perù, Lota dalle Filippine, Raymond dalla Repubblica Democratica del Congo. Con il loro lavoro, le loro famiglie e la loro partecipazione attiva alla vita della società locale danno un contributo non solo economico, ma anche sociale, culturale e di fede a una terra che – lo si voglia riconoscere o no – è sempre più meticcia. Con tutto ciò che di positivo e sfidante questa situazione comporta.

Carmen, Lota e Raymond fanno parte dei quasi 750 mila stranieri presenti oggi sul territorio della diocesi ambrosiana contro i 100 mila di trent’anni fa. Un territorio che si configura sempre di più come una realtà multietnica e multiculturale. Nonché multireligiosa. Sono infatti quasi 270 mila i musulmani e circa 370 mila i cristiani, di cui però solo 233 mila cattolici, mentre 115 mila sono ortodossi e 34 mila appartengono ad altre confessioni cristiane. Una sfida interessante anche per il dialogo interreligioso ed ecumenico.

Certo, quando i dati e le sfide prendono i volti e le storie delle persone, tutto sembra più facile. Come nel caso di Carmen, Lota e Raymond che stanno portando il loro vissuto e il loro impegno personale, culturale, di fede e di relazioni anche all’interno della Commissione di coordinamento del Sinodo minore ambrosiano.

«Io, in un certo senso, sono il “prodotto” dei missionari francescani cappuccini!», scherza Carmen Rosario, che è arrivata in Italia 25 anni fa da Chorrillos, piccola città a sud di Lima, dove dirigeva una scuola. «Sono cresciuta con una bella generazione di preti italiani – continua – che ci hanno accompagnato nella nostra formazione cristiana. Del nostro gruppo, cinque ragazzi sono diventati preti. Io e mio marito abbiamo seguito la formazione come catechisti. Eravamo molto impegnati in parrocchia». La difficile situazione economica del Paese e la guerriglia di Sendero Luminoso hanno spinto il marito – che lavorava come amministrativo in un ospedale – a venire in Italia, con la promessa di un lavoro che, arrivato sul posto, non esisteva. «Ha vissuto mesi difficili – ricorda -, ma ha incontrato anche molta solidarietà, specialmente da parte dei salesiani di via Copernico a Milano».

 

Dopo qualche tempo, Carmen lo raggiunge. «Aveva trovato lavoro e si era interessato anche alla vita della parrocchia. Io mi sono inserita in quel percorso, anche se all’inizio non sapevo la lingua. Le mie prime parole in italiano sono state le preghiere». La figlia ha frequentato un collegio di suore a Legnano, dove c’erano anche alcune religiose latinoamericane: «Sono state per lei come madri», ricorda Carmen. Poi l’inserimento in oratorio, dove ha mandato immediatamente anche i due figli, 17 e 18 anni, arrivati successivamente in Italia. «Per loro è stato un po’ più complicato perché erano già grandi…».

Nessun problema dunque? «Beh, le Messe qui sono un po’ fredde, la gente entra ed esce di chiesa senza salutarsi. Pensavamo che la Chiesa ambrosiana fosse un po’ più “familiare”…». Questo però non li ha scoraggiati, anzi. «Siamo passati dalla fase di accompagnamento dei nostri figli a un impegno più consistente per la comunità. Mio marito è diventato diacono. Io faccio parte anche del consiglio pastorale della “parrocchia dei migranti” e tengo la catechesi ai giovani che si preparano ai sacramenti. Nella nostra parrocchia, invece, accompagniamo i fidanzati che si preparano al matrimonio. Insomma, continuiamo a far crescere la nostra fede e a tenere acceso un fuoco che – siamo convinti – brucia meglio quando si è insieme».

«Anche per questo – insiste – è importante la nostra partecipazione a questo Sinodo. È una possibilità di essere uniti come figli di Dio in una fratellanza vera e giusta, lasciando da parte pregiudizi,  stereotipi e un certo paternalismo. Essere ascoltati fa bene e fa crescere. E aiuta a riflettere. Tutto questo mi dà molta speranza».

«Noi i pregiudizi li abbiamo al contrario – interviene Raymond Bahati, psicologo e direttore del coro Elikya, arrivato nel nostro Paese 16 anni fa -. Quando dall’Africa si immagina l’Italia si pensa al Vaticano, al Papa, al cuore della cattolicità. Poi quando si arriva qui si scopre che le Messe sono particolarmente “tristi” e che il modo di vivere la fede è piuttosto blando. La religione non è una parte essenziale della vita della gente. Anzi, molti sono analfabeti della fede. E questa è anche una responsabilità della Chiesa».

Per questo Raymond, dopo qualche anno di “ambientamento”, ha deciso di impegnarsi in prima persona. «Sentivo una certa nostalgia di relazioni, famiglia, fede… Così ho deciso di fare qualcosa e ho creato Elikya, “speranza” in lingua lingala. Che non è semplicemente un coro multietnico, è un’esperienza straordinaria di incontro e confronto tra persone diverse. Qui ho ritrovato fede, affetti, gioia di fare le cose insieme. E anche la bellezza e la ricchezza di essere diversi, condividendo però un progetto comune».

Raymond si è quindi inserito con più impegno anche nella Chiesa ambrosiana. È entrato a far parte del consiglio pastorale diocesano e ora condivide anche il processo sinodale: «Sono felicissimo. È una speranza incredibile. Ma non deve essere una cosa simbolica. Deve produrre un vero cambiamento nella Chiesa. Una Chiesa in cui i migranti diventino più protagonisti e possano avere anche un ruolo propositivo. Anche noi, però, dovremmo lavorare di più con le nostre comunità di origine, perché si sentano più coinvolte e diventino parte integrante di questo processo che dovrà portare a costruire la Chiesa di domani».

Diversa e complementare è invece l’esperienza di Lota Mercado, responsabile della comunità filippina della chiesa di Santo Stefano a Milano, che conta 300 membri suddivisi in nove gruppi.

«Ho cominciato a frequentare la comunità filippina quando sono arrivata in Italia nel 1998, perché non sapevo la lingua – racconta Lota -. Ancora oggi, nonostante le fatiche del lavoro settimanale, il sabato mi sento già carica, non vedo l’ora di partecipare alla Messa e di organizzare le attività della domenica. Si comincia alle 8.30 con i battesimi, poi il catechismo, quindi la Messa delle 12.30, seguita dal pranzo e da varie attività. La domenica passiamo quasi tutta la giornata in chiesa. Si vive un senso di comunità. Organizziamo anche novene o celebrazioni speciali in occasione di alcune feste. E ogni mese ci sono più di dieci battesimi».

«Questo Sinodo è molto importante – aggiunge -. La Chiesa di Milano deve aprirsi di più alle comunità migranti. Ma anche noi dobbiamo cambiare un po’ la mentalità. Abbiamo le nostre abitudini, la nostra maniera di vivere la fede, ma non dobbiamo chiuderci in noi stessi. Anche perché possiamo dare una bella testimonianza di fede. I miei amici italiani spesso si meravigliano nel vederci così impegnati. Insieme dobbiamo trovare il modo per far sì che ciascuno si senta più libero di esprimersi per quello che è. Perché anche noi ci sentiamo autenticamente Chiesa ambrosiana».