Il testamento di padre Gheddo

Il testamento di padre Gheddo

Nell’ultima intervista, il bilancio che il missionario-giornalista, a lungo direttore di “Mondo e Missione”, traccia della sua vita interamente spesa a raccontare l’annuncio del Vangelo ai popoli

 

Ci ha lasciato il 20 dicembre scorso all’età di 88 anni padre Piero Gheddo, missionario del Pime che di questa rivista, dal 1959 al 1994, è stato ben più che il direttore. Il mondo dell’animazione missionaria, che tanto gli deve in Italia, ha ricordato in queste settimane i tanti doni che ci ha lasciato: la passione per la Chiesa e per il mondo, i suoi innumerevoli libri e reportage, lo stesso Centro missionario Pime di Milano di cui fu tra i principali promotori all’inizio degli anni Sessanta. Su queste pagine, che sono state così a lungo la sua casa, vogliamo ricordarlo con ampi stralci dell’ultima intervista realizzata nell’estate 2016 e pubblicata a conclusione del libro “Inviato speciale ai confini della fede”, l’autobiografia uscita alla fine dello scorso anno per l’editrice Emi. 

Padre Gheddo, da alcuni anni tu, il “globetrotter della missione”, sei costretto per ragioni di salute a non poter più viaggiare. Come ti senti?

«L’ultimo viaggio extraeuropeo l’ho compiuto in Bangladesh nel 2009. L’anno prima a Maroua, nel Nord del Camerun, mentre partecipavo a una festa con migliaia di musulmani e 40 gradi all’ombra, ho accusato problemi alle vene varicose delle gambe. Operato due volte, sono andato in Bangla-desh. Poi… stop. Peccato, perché avevo ricevuto un invito dal vescovo Hinder, a visitare gli Emirati Arabi Uniti. Anche in Algeria, dove il Pime è presente da dieci anni, sarei andato molto volentieri. Ma la volontà di Dio (sorride) è un’altra».

Che cosa dici al Signore in questa fase della tua vita?

«Sto vivendo la prova della sofferenza. Accetto da Dio quello che mi manda. Perché la sofferenza portata con fede, in unione con la passione di Gesù, porta sempre frutti, come la sua passione. Quindi sono contento, perché provo proprio cosa vuol dire la sofferenza in compagnia di Gesù, portando la mia piccola croce».

Oggi è difficile spiegare il valore della sofferenza…

«Non chiedo la grazia di guarire. Spero che il Signore mi guarisca, ma dico: “Sia fatta la tua volontà, se pensi che io stando in carrozzina possa dare il mio contributo, quel che scegli tu per me è sempre il meglio”. D’altra parte, la via è quella. Gesù ha salvato il mondo con la croce e poi con la resurrezione. È una riflessione che facilmente dimentichiamo quando siamo in piena attività».

È la fede che ti ha aiutato nelle mille circostanze, spesso difficili, della tua vita?

«Una volta quand’ero direttore di Mondo e Missione, un amico giornalista mi chiese: “Qual è il segreto della tua vita? Perché tu affronti guerre, dittature, pericoli di ogni genere, vai tra i lebbrosi e nelle baraccopoli più disastrate e pericolose, e sei sempre sorridente…”. Ho risposto: “Il mio segreto è la preghiera”. L’amico non ci credeva, eppure è proprio così».

C’è un episodio del Vangelo che ti è più caro perché ha segnato la tua vita?

«Quando Gesù chiama Pietro e suo fratello. Mi commuove sempre: “Vi farò pescatori di uomini”. E loro sono andati con Lui. Anche al bambino Pierino Gheddo ha detto: “Ti farò pescatore di uomini”. Io sono andato con Lui e dopo 80 e più anni sono contentissimo di averlo seguito».

Ricordi un momento particolare in cui hai sperimentato la misericordia di Dio su di te?

«Ho sperimentato da vicino l’orrore della guerra in varie occasioni, specialmente in Vietnam e in Angola. Ma c’è un altro caso in cui ho potuto ringraziare il Signore che mi ha letteralmente “preso per i capelli”. Quando sono andato per la prima volta in Brasile nel 1966, arrivo a Fortaleza nel pomeriggio, in attesa dell’aereo del giorno dopo per Belem. In albergo, vedendomi uscire prima di cena per fare un giro in città, il portiere mi dice: “Vuole trascorrere una buona notte?”. Nella mia ingenuità e nel mio portoghese imparaticcio, non colsi l’allusione e risposi di sì. Quando rientrai in camera, trovai una donna seminuda ad aspettarmi. Sorpreso, le dissi che aveva sbagliato stanza, ma lei insisteva per fermarsi. Alla fine, dietro una piccola mancia, se ne andò. Ma se Gesù non fosse intervenuto…».

Un tuo “cavallo di battaglia” è la convinzione che il Vangelo contribuisce allo sviluppo dei popoli. In sintesi, perché?

«Se Gesù si è fatto uomo, è morto in croce ed è risorto per salvare gli uomini, li salva solo per la vita eterna o anche per migliorare le condizioni di vita dell’uomo e dei popoli? In Africa mi dicevano che i villaggi cattolici si sviluppano più dei villaggi animisti o musulmani; e non per gli aiuti, perché si aiutavano tutti, ma perché Gesù cambia il cuore dell’uomo: da egoista lo rende altruista, da chiuso in se stesso lo apre agli altri, da insensibile a sensibile al bene pubblico…».

C’è una lezione che i poveri danno a noi popoli «sviluppati»?

«Sono stato diverse volte in India, forse il Paese del “Terzo mondo” che più mi ha colpito e fatto pensare. Pensavo di scrivere un libro, Elogio di un popolo povero. Elogio non della povertà in se stessa, che quando diventa miseria è disumana, ma elogio delle virtù dei poveri. Cioè la solidarietà, l’ospitalità, la serenità, anche la gioia di vivere, pur in condizioni di vita che a noi sembrano impossibili. Noi viviamo nell’abbondanza e nel superfluo, eppure non siamo mai contenti. Nei Paesi poveri spesso manca il necessario, ma c’è più ottimismo, più speranza nel futuro. Sì, i poveri hanno da insegnarci, eccome. Non so se le masse indiane di Calcutta o di Mumbai sono più alienate rispetto alle folle di New York o di Londra. I due modelli di vita e di sviluppo dovrebbero integrarsi, imparare l’uno dall’altro: da un lato a produrre di più e a vivere con maggiori comodità, dall’altro a tornare a una vita più austera e più attenta ai valori morali e culturali che non ai beni di consumo superflui».

Papa Francesco chiede una «Chiesa povera per i poveri», ma siamo ancora lontani da quel traguardo. Quali passi ti auguri possa compiere la Chiesa per andare incontro ai poveri in modo più credibile ed evangelico?

«Le riforme strutturali della Chiesa ci vogliono, ma non bastano. Noi battezzati dobbiamo convertirci all’esempio di Gesù Cristo. Papa Francesco ha già fatto molte riforme strutturali, ma anche lui si rende conto di quanto sia difficile mettere assieme le opere del Vangelo e di carità con l’uso del denaro. Ricordo un detto della grande santa Teresa: “Io senza Gesù non posso far niente. Con Gesù posso fare tutto. Con un po’ di soldi farò ancora di più”».

Che intendi dire?

«Nel mondo cattolico attuale ci sono molti buoni esempi di persone e istituzioni che hanno realizzato “una Chiesa povera per i poveri”. Ma la massa dei battezzati sta entrando a poco a poco in questa prospettiva. Ciascuno di noi deve interrogare se stesso: sono attaccato al denaro? Aiuto volentieri i poveri? Cosa c’è di superfluo nella mia vita?».

Hai scritto la storia del Pime, sei la persona che conosce meglio l’Istituto (anche le magagne). Perché ami il Pime?

«Perché totalmente orientato alla missione ad gentes, ed è il motivo per cui nel 1945 dal seminario diocesano di Vercelli venni al Pime. Avrei potuto scegliere una congregazione religiosa: i voti sono una grande cosa perché creano un attaccamento all’ordine e alla comunità. Però il Pime è un istituto “libero”. Padre Augusto Gianola, missionario fuori dalle righe, diceva: “Sono venuto al Pime e sono contento, nessun altro istituto mi avrebbe lasciato fare questa esperienza”. Studiando la storia del Pime, il lettore non immagina – lo dico con sincerità – quante personalità dell’Istituto si rivelano straordinarie! Come scriveva padre Manna: “(Noi del Pime) siamo figli di santi”».

Tu sei considerato come uno fermo sulle posizioni della dottrina cristiana, eppure persone laiche non credenti si rivolgono a te per un confronto. Perché?

«Credo che l’identità non tema il confronto. Sono stato in rapporto anche con Eugenio Scalfari negli anni Novanta. Un lettore di Repubblica aveva scritto, suggerendo di far sposare i preti, vista la crisi delle vocazioni. Scalfari, allora direttore di Repubblica, mi girò la lettera dicendo: “Risponda lei…”. Raccolsi l’invito e la mia risposta venne pubblicata».

Ne hai viste di tutti i colori, eppure manifesti sempre entusiasmo e ottimismo sul futuro. Perché?

«Sì, è vero: a dispetto di molti drammi nel mondo, divento sempre più ottimista per il futuro e non credo di essere un ingenuo. Vedo gli sterminati popoli che devono ancora ricevere l’annunzio della Buona Novella e soffro per l’indifferenza di troppi cristiani di fronte al problema primario: portare l’annunzio di salvezza a tutti gli uomini. Ma vedo anche con chiarezza che Gesù Cristo col suo Vangelo è sempre più l’unica via di salvezza per tutti».

Oggi è difficile essere ottimisti sul futuro, attanagliati come siamo da una crisi economica che sembra non finire, diseguaglianze globali che permangono, il terrorismo islamico…

«Non nego gli enormi problemi che ci turbano, ma proviamo a leggerli “con gli occhi di Dio”. Una delle letture più affascinanti dei miei anni giovanili sono stati alcuni testi di padre Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955), che vedeva l’umanità camminare in modo misterioso ma reale verso Cristo, unico Salvatore dell’uomo. De Chardin scriveva che l’uomo è la chiave dell’evoluzione globale dell’universo, il cui fine ultimo è Cristo e Dio. Noi non comprendiamo nulla della storia umana: vediamo tanti fatti, siamo sempre informati su tutto, ma non sappiamo giudicarli con il metro dell’eternità, cioè con il metro di Dio. Mao pensava di aver distrutto la Chiesa; non è stato così. La fede autentica ci dice che la storia dell’umanità, come la nostra piccola storia personale e quella millenaria della Chiesa, sono nelle mani di Dio. Ecco perché sono ottimista: perché mi fido di Dio, ho fiducia nella Provvidenza».