Nüshu, la lingua che diede voce alle donne

Nüshu, la lingua che diede voce alle donne

Nata tre secoli fa nel Sud della Cina, in un mondo femminile oppresso dal patriarcato, dal 25 novembre è raccontata da una mostra al Museo Popoli e Culture del Pime

“Tutte le donne del mondo appartengono alla stessa famiglia”, si legge su una moneta di bronzo risalente alla metà del XIX secolo e rinvenuta nella Cina meridionale. I caratteri del testo, tuttavia, non sono in cinese, ma in nüshu, l’unica lingua scritta al mondo inventata e utilizzata esclusivamente da donne.
La storia di questo fenomeno culturale originalissimo affonda le sue radici in alcuni villaggi della remota contea di Jiangyong, nella provincia dello Hunan, dove, tre secoli fa, madri e figlie, sorelle e amiche, analfabete perché considerate indegne di ricevere un’istruzione secondo la società maschilista e patriarcale dell’età imperiale, inventarono una scrittura sillabica semplificata per scambiarsi confidenze e dare voce alle fatiche di una quotidianità dura e sacrificata. Una vita scandita dalle “tre obbedienze” – dovute al padre, al marito e ai figli maschi – e caratterizzata dalla necessità di contare solo su sé stesse fin dal giorno del matrimonio, intorno ai quindici anni, quando le ragazzine venivano date in spose a sconosciuti e dovevano abbandonare il loro villaggio e i propri affetti.
Eppure, in questo contesto asfittico, seppe fiorire «il codice di una libertà creativa dotata di una potenza formale conquistata con discrezione da donne che, attraverso la scrittura, il canto, il ricamo, hanno tramandato vicende quotidiane, moniti, leggende, ma soprattutto la solidarietà e la comprensione reciproca per il destino che le accomunava», spiega la sinologa Giulia Falcini, docente dell’Università di Macerata e curatrice della mostra “Il nüshu. I caratteri che diedero voce alle donne”, in programma al Museo Popoli e Culture del Pime di Milano dal 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, fino al 10 febbraio 2024, Capodanno cinese.

Ragazze e anziane, relegate ai lavori domestici, utilizzavano simboli grafici dalle forme sottili e allungate, trascrizione in sillabe dei suoni dei dialetti locali, per ricamare poesie, storie e canzoni popolari su ventagli e abiti, fazzoletti e cinte, o per scrivere, usando bastoncini di bambù affilati intinti in un inchiostro improvvisato con i fondi bruciati dei wok, i loro pensieri più intimi. La “lingua femminile”, che nella contea di Jiangyong è ancora praticata, anche se con un valore culturale e non più di necessità pratica, era utilizzata nei momenti di aggregazione e rappresentava una valvola di sfogo per una condizione oppressiva, che in alcuni casi portava a una profonda disperazione. Ma sorprendentemente, in questi villaggi, la triste percentuale di suicidi femminili risultava inferiore alla media.
In nüshu le ragazze comunicavano con la loro laotong, una sorta di sorella dell’anima assegnata loro dalle mediatrici dopo la pratica tradizionale della fasciatura dei piedi (ridotti a una lunghezza tra i sette e i dodici centimetri, per ottenere l’andatura oscillante conforme ai canoni estetici dell’epoca). E in nüshu venivano compilati i “libri del terzo giorno”, donati alla neosposa nel momento in cui era costretta a lasciare il villaggio natio per seguire il marito: contenevano auguri, consigli e raccomandazioni ma anche pagine bianche, che la ragazza avrebbe poi potuto riempire con i suoi pensieri sulla vita coniugale.

«La mostra, organizzata in collaborazione con Associna, associazione che riunisce le nuove generazioni italo-cinesi, si lega profondamente con i temi raccontati dal Museo Popoli e Culture e con la sua volontà di essere luogo di relazione, crocevia di sguardi, spazio per il dialogo e l’incontro», spiega Francesca Moretti del Museo del Pime. L’esposizione rappresenta un dialogo tra alcune opere originali, realizzate da una delle eredi più giovani e apprezzate della tradizione nüshu, Hu Yuanyu, accanto alle interpretazioni realizzate da Giulia Falcini, che con lei ha potuto studiare questa scrittura. Ne scaturisce un confronto in bilico tra la pratica originale – quella degli oggetti provenienti dal villaggio di Pumei – e una sua declinazione contemporanea, in chiave transculturale, realizzata con diverse tecniche e materiali.
«All’interno del nostro museo – prosegue Francesca Moretti – molti degli oggetti esposti ci narrano storie che hanno per protagoniste le donne e ci offrono continuamente spunti di riflessione per indagare non solo il passato, ma anche e soprattutto il mondo che ci circonda. Così questa mostra, a un primo sguardo molto specifica, vuole in realtà aprire un’ulteriore finestra sulla condizione femminile, offrendo un tassello per la lettura di un tema complesso e più che mai attuale e che interseca, a diversi livelli e con diverse sfumature, i vissuti della società e di ognuno di noi».
Nel giorno dell’inaugurazione della mostra, sabato 25 novembre, sarà anche presentato il libro di Giulia Falcini Il nüshu, la scrittura che diede voce alle donne (CSA editrice), mentre durante il periodo di apertura dell’esposizione verranno organizzati laboratori di scrittura.

Per tutte le informazioni: museopopolieculture.it/mostre