Pace, un patto tra generazioni

Pace, un patto tra generazioni

Nelle società lacerate da conflitti, il percorso della riconciliazione richiede tempi lunghi e un passaggio di testimone tra adulti e giovani: dalla memoria al futuro. È il tema che papa Francesco suggerisce nel messaggio per la Giornata mondiale della pace 2022. Dal Sudafrica alla Cambogia, dal Sahara alla Colombia le storie di chi ci sta provando

 

Curare la memoria, ma anche “fare” memoria. Guarire le ferite lasciate da conflitti e crisi, ma anche impedire che se ne producano di nuove. Sono percorsi lunghi quelli del dialogo, della pace e della riconciliazione, che richiedono spesso molti anni e più generazioni. È quanto ci ricorda anche Papa Francesco nel messaggio per la Giornata mondiale della pace 2022, in cui, oltre al tema dell’educazione e del lavoro, ha inserito anche quello del dialogo intergenerazionale. Si tratta di un’ideale prosecuzione di quell’invito alla cura – e al “prendersi cura” – che aveva lanciato lo scorso anno, invitando a combattere la cultura dell’indifferenza, dello scarto e dello scontro.

È un tema che interpella tutti e a tutte le latitudini. E soprattutto è un cammino, che in molti contesti ha coinvolto singoli e comunità per ricostruire – attraverso la memoria di chi ha vissuto drammi e conflitti, ma anche con il coinvolgimento di chi è nato dopo – società ferite e lacerate. Questo lavoro paziente di tessitura di legami, relazioni e memorie condivise deve necessariamente includere generazioni diverse per poter rielaborare i traumi del passato e costruire prospettive di futuro.

In alcuni casi, come in Sudafrica, questi percorsi si sono appoggiati sulla statura morale di grandi testimoni come Nelson Mandela e Desmond Tutu, il primo morto nel 2013, il secondo mancato a 90 anni proprio pochi giorni fa. E se quella di Madiba è una figura ormai scolpita nella storia, il vescovo Tutu ha continuato in questi anni a rappresentare una delle ultime testimonianze dei crimini dell’apartheid, ma anche del percorso di verità e riconciliazione portato avanti successivamente.

Un percorso avviato dall’apposita Commissione nel 1996-1997 e che continua a essere attualizzato da moltissime iniziative della società civile. A trent’anni dalla fine del regime segregazionista, infatti, il Sudafrica è tutt’altro che un Paese unito e riconciliato. Oggi le linee di frattura non sono più – o non solo – razziali: spesso si sovrappongono alle molte forme di discriminazione, alla mancanza di diritti e opportunità, a frustrazioni e malcontento alimentati da una situazione economica precaria – gravemente peggiorata dalla pandemia di Coronavirus -, da un sistema politico corrotto e irresponsabile e da profonde diseguaglianze.

Per questo continuano a essere molto importanti iniziative come quelle promosse dall’Institute for Healing of Memories (Istituto per la guarigione della memoria), fondato nel 1998 da father Michael Lapsley, un sacerdote anglicano anti apartheid, lui stesso vittima di un attentato in cui ha perso un occhio e le mani. Nata come piattaforma aggiuntiva alla Commissione verità e riconciliazione per chi desiderava condividere la propria esperienza, continua a portare avanti molti e interessanti programmi. «Ciascuno ha una storia da raccontare e ogni storia deve essere ascoltata, riconosciuta e rispettata – ripete father Michael -. Questo è il primo passo verso la guarigione sia a livello personale che interpersonale».

«Oggi – sostengono i membri dell’Istituto – le cicatrici del passato continuano a plasmare le vite, gli atteggiamenti e le scelte dei sudafricani, quindi il nostro obiettivo originale rimane più importante che mai. Tuttavia, con il passare del tempo è diventata evidente la rilevanza della nostra metodologia per una gamma più ampia di gruppi e questioni e quindi il focus del nostro lavoro si è ampliato». Ha incluso, ad esempio, i più giovani, quelli che l’apartheid non l’hanno vissuto, ma portano su di loro la memoria “avvelenata” dai racconti degli adulti e spesso vivono conflitti generazionali all’interno delle famiglie.

«Alcuni ragazzi – testimoniano gli operatori dell’Istituto – non capiscono e pensano di costruirsi una vita senza tener conto di quanto è successo qui. Altri, invece, subiscono l’influenza negativa dei genitori, che trasmettono loro l’odio e il risentimento coltivati per anni. È una situazione complessa. Tutti siamo in un

modo o nell’altro vittime dell’apartheid. Si tratta ora di far capire che tutti abbiamo anche dei diritti. Compreso quello di costruire insieme un Sudafrica libero, multirazziale e riconciliato».

Uno dei programmi portati avanti dall’Istituto si chiama “Restoring humanity” ed è rivolto ai giovani che sono spinti a imparare gli uni dagli altri attraverso workshop, circoli di storytelling e visite a luoghi storici o attuali di disumanizzazione o di difficile convivenza, con un focus particolare, per i prossimi tre anni, sulle questioni di genere. Proprio le donne hanno subìto e continuano a subire varie forme di violenza e discriminazione. Ma sono state spesso loro, sia in passato che oggi, a resistere e a portare avanti nella quotidianità modi nuovi di vivere insieme, cucendo insieme passato, presente e futuro.

Il ruolo delle donne è stato e continua a essere fondamentale anche in un altro contesto africano segnato da gravissime violazioni dei diritti umani: quello del popolo saharawi. Un popolo che in grande maggioranza vive da profugo nei campi del deserto algerino, dopo essere stato cacciato dalla sua terra nel 1976 in seguito all’occupazione marocchina.

Anche in questo contesto difficilissimo e alienante, sono soprattutto le madri a trasmettere ai figli cresciuti in esilio non solo i valori culturali, tradizionali e religiosi dei saharawi, ma anche la memoria di una lotta per i diritti e la libertà che va avanti da moltissimi anni e di cui, purtroppo, non si intravede la fine. È un compito delicatissimo quello di cui queste donne fiere ed energiche si fanno carico. Alcune di loro, come Nuena, sono fuggite dal Sahara Occidentale sotto le bombe. «Mio marito è stato ucciso – ricorda -. Siamo arrivati qui senza niente. Io e le altre donne abbiamo dovuto strappare i veli per coprire i nostri figli. Oggi abbiamo accettato la sfida di assumerci grandi responsabilità per dare un futuro ai nostri ragazzi e trasmettere l’orgoglio di appartenere a questo popolo». Tenere insieme passato e futuro non è facile: trasmettere il senso e i valori della lotta combattuta dai padri con le istanze di ragazzi nati e cresciuti in un campo profughi è alquanto arduo.

Molti giovani, del resto, hanno come unico sogno quello di andarsene, altri rischiano di finire arruolati dai gruppi terroristici che imperversano nel Sahara. In mezzo ci stanno queste madri coraggiose che provano a portare avanti azioni non violente per una causa di libertà, dignità e legalità.

In Asia, uno dei contesti in cui i traumi del passato influenzano ancora pesantemente, sebbene a volte sottotraccia, le dinamiche sociali e la vita quotidiana è quello cambogiano. Nel Paese pesa l’eredità di un regime sanguinario, quello dei khmer rossi, che tra il 1975 e il 1979 perpetrò un terribile genocidio in cui perirono quasi due milioni di persone. Tra queste vittime c’erano anche la sorella, lo zio e diversi altri parenti di Youk Chhang, allora un ragazzo, che nonostante le torture per aver raccolto dell’erba da mangiare mentre era rinchiuso in un campo di sterminio riuscì a sopravvivere.

Oggi sessantenne, Youk Chhang ha dedicato tutta la vita a una missione: salvare le testimonianze su quel periodo di terrore per portare alla luce la verità, fare giustizia e, così, spianare la strada alla riconciliazione. Perché «una società non può conoscere se stessa se non ha memoria della sua storia». Per questo, nel 1995 partecipò alla creazione del Documentation Center of Cambodia, un istituto di ricerca indipendente che oggi dirige e che negli ultimi decenni ha permesso di scoprire 20 mila fosse comuni e di raccogliere circa un milione di documenti, dagli interrogatori dei prigionieri ai film di propaganda del regime, dai diari e le interviste ai sopravvissuti fino a oltre 30 mila biografie di vittime e soldati.

Una raccolta che è stata fondamentale nel lavoro del Tribunale speciale per i khmer rossi – in cui lo stesso Youk è stato ascoltato come testimone – e che oggi rappresenta un patrimonio al servizio delle nuove generazioni: il Centro, che propone percorsi educativi anche sulla cura del trauma, la pace e lo sviluppo, ha pubblicato il primo libro di testo per raccontare ai giovani cambogiani gli orrori subiti dai loro anziani. E punta a coinvolgerli concretamente nel costruire una società riconciliata.

Youk Chhang, che nel 2018 ha ricevuto il premio Ramon Magsaysay noto come il Nobel asiatico per il suo lavoro nel «preservare la memoria del genocidio e perseguire la giustizia», ha da poco ottenuto un ingente finanziamento dall’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo internazionale per un progetto di tutela della salute dei sopravvissuti al genocidio, nel contesto del quale cinquecento giovani volontari accompagneranno gli anziani alle visite presso cliniche locali.

«Mettendosi al servizio di queste persone, i ragazzi avranno anche l’occasione di ascoltare le loro storie di lotta e sofferenza», ha spiegato. L’obiettivo è «mettere in luce l’umanità condivisa dei cambogiani, quell’umanità che la violenza distrugge e che il nostro Centro vuole ripristinare, a livello delle vittime ma anche in chi ha perpetrato atti orribili».

Ricucire un tessuto sociale strappato dal conflitto è anche il compito che, a tutt’altre latitudini, porta avanti il colombiano padre Leonel Narváez Gómez, missionario della Consolata fondatore e presidente della Fundación para la reconciliación, nata nel 2003 a Bogotá in un contesto in cui la guerra tra governo e guerriglieri delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) ha provocato oltre 260 mila vittime e milioni di sfollati, fino allo storico accordo di pace firmato cinque anni fa. Una firma in cui ci fu il contributo dello stesso padre Leonel e del metodo della “Scuola di perdono e riconciliazione” (“Espere”) elaborato proprio dalla Fondazione e oggi utilizzato per i programmi di recupero e reinserimento sociale degli ex combattenti.

«Non è possibile dare un futuro alla Colombia se non si spengono i focolai di rancore, odio e vendetta che ciascuno porta nel cuore», sostiene il missionario, che dopo 11 anni di impegno in Africa e un decennio nell’Amazzonia colombiana in cui fu coinvolto nei negoziati con le Farc, ha approfondito il tema del conflitto nelle Università di Cambridge e Harvard. Il modello della Scuola di perdono, i cui corsi coinvolgono una ventina di persone poi invitate a ripetere l’itinerario formativo nel proprio ambiente, comprende mediazione, arbitrato e riconciliazione per affrontare l’odio, il risentimento e la sete di vendetta, ma anche l’insicurezza e la mancanza di motivazione che diventano seme di nuovi e più gravi conflitti.

Dopo aver completato un programma in cui riconoscono le loro azioni e risarciscono coloro a cui hanno fatto torto, gli ex combattenti «si trasformano in leader di pace riconosciuti dalle proprie comunità». Un modello valido in qualunque contesto segnato dal rancore sociale e che, non a caso, è stato già imitato da altri 18 Paesi del mondo, rendendo quartieri, parrocchie, aziende e università reti di riconciliazione e fulcri del cambiamento.