Il momento d’oro degli autocrati

Il momento d’oro degli autocrati

Mentre pensiamo al virus nel mondo Putin ha ottenuto dalla Duma la possibilità di rimanere presidente fino al 2036. E i generali del Myanmar hanno posto il veto sulle riforme costituzionali che avrebbero limitato i loro poteri

 

Ma a parte il Coronavirus, che cosa sta succedendo in questi giorni nel mondo?

Due notizie di queste ore ci confermano la fragilità delle regole democratiche in tante aree del mondo. La prima viene dalla Russia dove la Duma – cioè la camera bassa del parlamento – ha approvato in via definitiva le riforme alla Costituzione volute dal partito di Vladimir Putin. Modifiche che prevedono sì il limite dei due mandati presidenziali, ma – grazie a un emendamento passato con 380 favorevoli e appena 43 contrari – non si applicheranno al presidente in carica. Questo significa che alla scadenza del suo mandato presidenziale (nel 2024) Putin potrebbe decidere comunque di ricandidarsi e restare in carica fino al 2036, dal momento che il mandato presidenziale dura sei anni. Vale la pena di ricordare che Putin è stato eletto presidente per la prima volta nel 2000. Dal momento che già la vecchia Costituzione prevedeva il limite di due mandati, tra il 2008 e il 2012 aveva dovuto lasciare la carica di capo dello Stato all’ex delfino Dmitrij Medvedev, «consolandosi» però con l’incarico di primo ministro. A parte quei quattro anni, dal 2000 a oggi è sempre stato il presidente della Russia e in mille modi ha stroncato chiunque abbia cercato di far crescere un movimento di opposizione nel Paese.

Il Myanmar invece è alle prese tuttora con le contraddizioni della transizione alla democrazia, scritte nelle regole fissate dai generali. La Lega Nazionale per la Democrazia – il partito di Aung San Suu Kyi, ampiamente vincitore delle elezioni del 2015 – si è vista infatti in queste ore nuovamente respingere dal parlamento le richieste di riforma della Costituzione del 2008 che miravano a limitare il potere amplissimo che resta nelle mani dei militari birmani a Yangon. Tuttora infatti l’esercito designa il 25 per cento dei parlamentari e controlla una serie di ministeri chiave come quelli degli Interni, della Difesa e dei Confini. Far passare queste modifiche era un’impresa quasi impossibile, dal momento che l’attuale Costituzione prevede una maggioranza qualificata del 75 per cento per cambiare le regole. Va detto, però, che contro gli emendamenti della Lega Nazionale per la Democrazia hanno votato anche i rappresentanti delle minoranze etniche, insoddisfatti per il modo in cui il partito di Aung San Suu Kyi sta affrontando la questione del federalismo. Il Myanmar, dunque, quest’anno andrà di nuovo al voto mantenendo intatta la norma che riserva ai militari un quarto dei seggi del parlamento birmano.

 

Foto: www.kremlin.ru