Non solo Chinatown

Non solo Chinatown

«Non muoiono mai. Non si integrano: gli stereotipi sulla comunità cinese in Italia si sprecano. Un viaggio tra le vie di Milano alla scoperta di una presenza sfaccettata. Che va ben oltre Paolo Sarpi


Uno dei più diffusi stereotipi sulle comunità cinesi in Italia è ritornato alla mia attenzione qualche sera fa, mentre guardavo uno spettacolo di Maurizio Crozza. Sia pur scherzando, il comico riprendeva un interrogativo che sento spesso: «Ma quando muoiono i cinesi? Mai?». Da alcuni anni insegno a studenti cinesi del progetto Marco Polo-Turandot, finalizzato all’inserimento di questi giovani nelle università italiane. Anche grazie a questa esperienza (ma non solo) ho provato appunto ad andare oltre i luoghi comuni e le “leggende” che circondano la vita quotidiana di una comunità sfaccettata quanto affascinante. A cominciare da Milano.

LE STATISTICHE del Comune svelano rapidamente il mistero sulla presunta “immortalità” dei cittadini appartenenti a questa comunità. I cinesi sono il terzo gruppo straniero più numeroso in città. Dei 25 mila residenti, equamente divisi fra uomini e donne, circa il 26% sono minorenni. Nella nostra città, come nel resto dell’Italia, è sottorappresentata la fascia d’età degli ultrasessantenni, perché per tanti immigrati cinesi la creazione e lo sviluppo di un’attività autonoma in Italia sono una tappa di un percorso che li riporterà in Cina.

L’intensità del lavoro e la differenza tra italiano e cinese impediscono agli adulti arrivati dalla Cina di ridurre rapidamente il divario linguistico, mentre è diversa la situazione per bambini e ragazzi. La conoscenza della lingua e dell’Italia è il filo conduttore delle conversazioni che ho avuto; la scuola, soprattutto quella elementare, è la protagonista di una vera integrazione.

Tra i tanti stereotipi sui cinesi, uno è piuttosto fondato: quello che i genitori chiedano ai figli di essere buoni studenti. Lavorando fianco a fianco, ho chiesto a Jada di raccontarmi la sua esperienza. Ha raggiunto a Milano i suoi genitori, partiti da Wencheng (come molti immigrati cinesi), quando aveva quattro anni. I suoi primi ricordi sono legati alle maestre che non solo l’aiutavano, ma la indicavano come modello ai suoi compagni. Questo esempio ci fa notare come, dagli anni Ottanta ad oggi, siano cambiati gli stereotipi prevalenti sui cinesi. Dal “sono studiosi, laboriosi e riservati” al “non vogliono integrarsi, non rispettano le regole e ci rubano il lavoro”.

Jada aveva frequentato solo un anno di scuola materna in Cina ed era stata accudita dai nonni. Il suo inserimento in una classe italiana non è stato complesso. I suoi genitori, però, non si sono accontentati. Alla fine degli anni Novanta, le domeniche erano scandite dalle lezioni di cinese a casa per tutti i figli, perché parlare il dialetto di Wencheng non era sufficiente. Lo studio del putonhua (o cinese mandarino) è un tratto che accomuna molte persone delle seconde generazioni e delle successive. Ricordo la mia iniziale sorpresa nel vedere due compagni di classe cinesi al corso di cinese. È un modo per mantenere vive le radici e, col passare degli anni, una via per creare possibili legami con un Paese che si sviluppa rapidamente.

NEGLI ANNI SUCCESSIVI, il patto di Jada con i genitori è stato continuare a studiare al liceo classico, aiutando contemporaneamente nell’attività di famiglia. Crescere in Italia e avere tanti amici italiani e stranieri porta lei, come altri, a non sentirsi pienamente inserita nella “comunità cinese”, nonostante i viaggi e i soggiorni di studio in Cina da un lato e l’attività di mediatrice dall’altro. Il primo strappo è andare a vivere fuori casa. Il secondo è quello di avere un fidanzato italiano, presentarlo in famiglia e poi convivere. Anche questa scelta crea difficoltà nei rapporti familiari. L’affidabilità mostrata dal fidanzato e il matrimonio hanno aiutato a superare la diffidenza.

Ancora la scuola, l’amicizia e l’amore sono protagonisti della seconda storia, di una giovane ventiduenne, studentessa del Politecnico di Milano. Silvia è nata in Italia in un piccolo paese. Anche i suoi genitori sono arrivati dalla provincia cinese dello Zhejiang. Per lei il “trauma” è stato trasferirsi a Milano. Quando i suoi genitori decidono di mandarla in collegio in Cina, a studiare da “pendolare” sfruttando le pause create dai diversi calendari scolastici, arriva un vero shock. Non parla a lungo con nessuno, l’impatto è negativo non solo perché gli amici sono in Italia, ma perché ha una mentalità e valori diversi.

Silvia si sente italiana e non vive a contatto con la comunità cinese. La sua richiesta di cittadinanza è ferma, nonostante sia nata in Italia e abbia frequentato scuole italiane. Avere un fidanzato italiano l’ha portata a riflettere ancora di più su di sé. I genitori non hanno accettato questa relazione. Questo rende più complicati i rapporti, perché oltre alla differenza generazionale, c’è quella di prospettive di vita. Anche per lei la padronanza della lingua è basilare. Sa farsi valere quando qualcuno esprime posizioni razziste, aiuta i compagni cinesi all’università e ha fatto mediazione nelle scuole. Di recente ha parlato con la mamma di una bambina che non ha visto i genitori per sei anni e ora rifiuta di parlare e mangiare a scuola. La sua esperienza personale l’ha aiutata a convincere la mamma a far seguire la figlia in modo da farle superare lo “sradicamento” dalla Cina e soprattutto a farle capire che un problema esiste.

A MILANO sono molte le associazioni che si occupano di mediazione e integrazione. Da Diamocilamano, nella notissima via Paolo Sarpi – cuore della “Chinatown milanese” -, ad Associna. Quest’ultima è nata nel 2005 e raccoglie le seconde generazioni (cioè i cinesi nati o cresciuti in Italia) e i loro amici italiani per creare momenti di incontro e riflessione sulla multiculturalità. Uno dei progetti più interessanti è stato realizzato con l’agenzia di ricerca sociale Codici. “Oltre Chinatown” ha coinvolto giovani cinesi e le loro famiglie. La parte di insegnamento linguistico si è unita a una ricerca sulle esperienze dei ragazzi ricongiuntisi con le loro famiglie, simbolicamente sintetizzata nel cortometraggio Come me.

IL MIO VIAGGIO si conclude proprio nella Chinatown milanese. Un pomeriggio arrivo in via Verga, nella sede dell’associazione Giulio Aleni. Salendo le scale, sento una classe di ragazzi cinesi che ripete i verbi all’indicativo futuro. Alla fine della lezione mi accoglie Gianpietro Beretta. Lui e altri insegnanti volontari mettono in pratica le finalità dell’associazione, nata nel 2009 con l’obiettivo di sviluppare l’integrazione attraverso l’istruzione. Le attività principali sono i corsi di italiano e di educazione civica per gli immigrati non abbienti, il supporto ai bambini e ai ragazzi cinesi che si inseriscono nel sistema scolastico italiano, l’assistenza burocratica.

Gianpietro dagli studenti-lavoratori coglie il desiderio di migliorare la propria situazione e di rompere l’isolamento. Secondo i dati Istat, tra gli stranieri in Italia i cinesi sono tra coloro che dichiarano di avere le maggiori difficoltà linguistiche, ma anche quelli che partecipano di più ai corsi di italiano (circa il 19%). Sentono la diffidenza nei loro confronti: anche quando non capiscono le frasi in italiano, ne comprendono il tono. Invece in classe si sentono accolti, fanno dei passi per migliorare la propria condizione e consapevolezza, stemperano la sfiducia che nasce dalla discriminazione.

Uscendo, il silenzio è rotto da due bambini che parlano in cinese. Poi uno di loro esce in cortile e inizia a parlare e a giocare con un compagno italiano. Questa mi sembra la migliore immagine per disegnare un possibile futuro, che è soprattutto nelle mani delle nuove generazioni.