Africa chiusa per coronavirus

Africa chiusa per coronavirus

Nonostante siano ancora meno di mille i contagiati, l’Africa si prepara ad affrontare il peggio. E così molti Paesi bloccano le frontiere e i voli internazionali. Ma misure interne come la chiusura dei mercati rischiano di far morire la gente non di Covid19, ma di fame. L’esperienza del dottor Alberto Piubello dal Niger

L’Africa chiude per coronavirus. La maggioranza dei Paesi africani, infatti, ha preso, questa settimana, misure drastiche di chiusura delle frontiere e di cancellazione di quasi tutti i voli internazionali. Questo per prevenire il più possibile la diffusione della pandemia che i fragili sistemi sanitari africani non sarebbero in grado di fronteggiare.

Preparsi al peggio

«Occorre prepararsi al peggio», aveva ammonito il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) Tedros Adhanom Ghebreyesus. E nonostante un numero ufficiale di contagi ancora molto basso – 850/900 circa in tutta l’Africa ad oggi 21 marzo 2020, mentre complessivamente nel mondo sono 280 mila i contagi e quasi 12 mila i morti – l’allarme è altissimo.

 

Misure draconiane

Quasi tutti i Paesi del continente hanno preso provvedimenti draconiani che prevedono la chiusura di scuole, edifici pubblici e di culto, bar e ristoranti, il divieto di assembramenti, misure di igiene più stringenti – in contesti dove a volte manca l’acqua! In Tunisia è stato imposto il coprifuoco di 12 ore dal 18 marzo. In Zimbabwe – dove sinora non ci sono casi – c’è lo stato di emergenza. In Algeria, vietate tutte le manifestazioni, comperso l’hirak, la protesta che andava avanti ininterrotamente tutti i venerdì da febbraio 2019. in alcuni Paesi sono stati chiusi anche i mercati. L’Africa si prepara a fronteggiare l’emergenza coronavirus rischiando di far morire di fame la sua gente.

 

In Niger sei posti di terapia intensiva

La situazione è davvero critica, come testimonia anche il dottor Alberto Piubello, esperto di tubercolosi e malattie infettive che vive da quasi 25 anni in Africa e ha lavorato in una ventina di Paesi del continente: «In un contesto come quello del Niger manca tutto, dai materiali più semplici come guanti e mascherine, ai test per diagnosticare il virus, ai posti in terapia intensiva, che sono sei e solo in capitale per una popolazione di 22 milioni di abitanti. In Italia, dove pure scarseggiano, sono 6.100». Il dottor Piubello è appena rientrato precipitosamente da Gibuti, dove si trovava per una formazione dell’Oms, con l’ultimo volo e l’ultimo posto disponibili, prima che entrambi i Paesi chiudessero frettolosamente le frontiere.

«L’obiettivo comprensibile che è che si eviti più possibile la diffusione dell’epidemia in Africa – commenta il medico che lavora per la Fondation Damien, responsabile del piano nazionale contro la tubercolosi resistente in Niger -. Molti Paesi, e non solo quello in cui vivo, non hanno sistemi sanitari adeguati per far fronte anche a questa pandemia, non solo per mancanza di attrezzature, ma anche di personale».

Il Niger, ad esempio, si sta organizzando come può per individuare strutture da usare come luoghi di quarantena e attrezzando alcuni posti aggiuntivi per la rianimazione, ma mancano concentratori di ossigeno e anestesisti. Paesi come Gibuti o la Guinea Bissau non hanno neppure la terapia intensiva.

Non solo Covid19

«Si deve sperare che il caldo non favorisca la diffusione del virus, ma su questo non abbiamo evidenze scientifiche», precisa il medico, che evidenzia un altro fattore che potrebbe giocare a favore dell’Africa: «La popolazione al di sopra dei 60 anni è molto ridotta e dunque i soggetti a rischio sono meno rispetto all’Europa».

Di contro, però, i Paesi con alta carica di Hiv/Aids presentano una fascia di soggetti a rischio molto vasta. Lo stesso vale per i malati di tubercolosi, una malattia che ancora oggi rappresenta la seconda causa di morte al mondo e uccide quattromila persone ogni giorno, di cui 500 di tubercolosi resistente.

«La mia équipe ed io stiamo monitorando molto da vicino i nostri pazienti che ovviamente sono particolarmente a rischio – racconta il medico -. Questo ci obbliga a un super lavoro, ma assolutamente necessario. Li monitoriamo quotidianamente, registrando temperatura e valutando possibili sintomi. Nel Paese sono disponibili pochi tamponi. C’è una cellula di crisi a cui, in caso di necessità, abbiamo accesso»

Cure. Anche contro le fake news

Dopodiché la grande questione riguarda le cure. «Non c’è niente di certo. Qui potremmo utilizzare la clorochina, che è stata usata in Francia su una ventina di pazienti, che sono molto pochi per avere riscontri scientifici. Il rischio è che, usandola male, si creino forme resistenti. La cosa più importante e fondamentale ovviamente è fare prevenzione».

Un po’ ovunque, i governi si sono organizzati per promuovere campagne di sensibilizzazione soprattutto attraverso radio e social media, anche per contrastare fake news, pregiudizi e paure incontrollate, che oggi in Africa sono diffuse più della malattia stessa. Compresi alcuni episodi di violenza nei confronti di stranieri, cinesi prima ed europei ora, additati come veri e propri “untori”, dal momento che la gran parte dei casi di coronavirus in Africa sembra sia stata “importata” da Paesi come Italia, Francia e Gran Bretagna.

Crisi umanitaria

Alcune misure di prevenzione, tuttavia, fanno molto discutere. Come il divieto di circolazione (eccetto per le merci), l’invito a rimanere a casa o la chiusura dei mercati in alcuni Stati.

«In un Paese come il Niger dove in questi giorni ci sono 40/42 gradi e si arriverà presto sino a 50 è impensabile stare in casa – dice il dottor Piubello -. Per non dire che la chiusura delle attività commerciali significherebbe ridurre alla fame gran parte della popolazione. Il 20% dei nigerini guadagna meno di un dollaro al giorno e più della metà meno di due dollari. La gente vive in gran parte di piccoli commerci. Non è pensabile costringerla in casa. Morirebbe di fame».

E questo vale non solo per un Paese poverissimo come il Niger, ma per gran parte dell’Africa. Che oggi si trova di fronte una sfida che non è solo sanitaria, ma anche economica e umanitaria.