La mia missione tra le sabbie del Sahel

La mia missione tra le sabbie del Sahel

Dopo 17 anni e, soprattutto, dopo il rapimento di padre Gigi Maccalli, don Domenico Arioli, fidei donum di Lodi, si interroga sulla sua presenza in Niger: una manciata di cristiani tra islamismo e dialogo

 

Quando vi è arrivato, 17 anni fa, sapeva che il Niger non era un Paese facile. Sapeva che era molto povero, uno dei più poveri al mondo, in fondo a tutte le classifiche dello sviluppo. Ma non poteva immaginare che sarebbe diventato, in poco tempo, un Paese così difficile. Don Domenico Arioli, 71 anni a luglio, fidei donum di Lodi, non è un tipo che si scoraggia facilmente. Ma certo, quello che sta succedendo in questo Paese saheliano e in quelli limitrofi – dal Mali al Burkina Faso, per non parlare del Nord della Nigeria – lo interroga e lo interpella nella quotidianità della sua missione. Specialmente in questi mesi segnati dall’angoscia per la scomparsa di un altro missionario italiano, padre Pierluigi Maccalli, della Società Missioni Africane (Sma), rapito proprio in Niger nel settembre del 2018.

«Il Niger di per sé non è un Paese ostile – tiene a precisare don Domenico -, ma la situazione è peggiorata molto a causa della presenza dentro e attorno di gruppi jihadisti, che stanno destabilizzando tutto il Sahel, compiendo atti terroristici, sequestri di persone, attacchi a villaggi e stragi di innocenti, ma anche dedicandosi a varie forme di traffici: migranti, droga, armi, tabacchi e merci contraffatte…».

I cristiani sono una piccolissima minoranza: rappresentano lo 0,3 per cento della popolazione che sfiora i 20 milioni di abitanti. I cattolici sono meno di 30 mila, quasi tutti stranieri: 18 in tutto le parrocchie della vasta diocesi di Niamey, la capitale. Ci sono anche due grandi gruppi protestanti e 59 Chiese indipendenti. Nel suo piccolo, una bella confusione.

Quasi tutti i cristiani sono immigrati dei Paesi vicini e vivono in Niger per motivi di studio, lavoro o commercio. «La nostra è una comunità in continuo mutamento ed evoluzione», testimonia padre Domenico, che si è trasferito recentemente da Dosso a Gaya, sempre nel Sud del Paese, una cittadina di circa 40 mila abitanti, dove è presente anche don Giuseppe Noli, 79 anni, fidei donum milanese con alle spalle un’esperienza di 12 anni in Perù e 10 ad Haiti. A Dosso è rimasto don Davide Scalmanini, anche lui di Lodi, con un seminarista togolese.

«All’inizio – ricorda – siamo arrivati in Niger in quattro, due preti e due laiche della diocesi di Lodi e abbiamo cominciato praticamente da zero. A Dosso, non avevano mai avuto un prete permanente. La comunità cristiana era composta da immigrati di diversi Paesi, soprattutto Benin, Togo e Nigeria, con culture e anche con lingue diverse. Non è facile tenerli insieme, anche se siamo una piccola comunità».

Poi ci sono quelli di passaggio. Migranti che attraversano il Niger verso l’Europa, restando sempre più spesso e sempre più a lungo imprigionati nell’inferno libico. E poi quelli che – negli ultimi mesi – dalla Libia fuggono e non hanno altra alternativa che di tornare indietro. Il Niger è un crocevia di queste rotte saheliane di migranti e disperati.

«La nostra comunità di Gaya è com­posta da circa 250 persone – racconta don Domenico -: un centinaio sono studenti del Benin che frequentano la scuola per infermieri. Gli altri sono in maggioranza igbo della Nigeria, che commerciano pezzi di ricambio e altro, o gente del Benin, del Togo o del Burkina Faso».

Poi c’è anche qualcuno del posto, ma i cristiani nigerini sono una rarità. «Non perché il contesto sia integralista o ostile – precisa don Domenico -, ma per cultura e tradizione. La pressione delle famiglie è forte. La conversione a un’altra religione è una cosa inimmaginabile». Anche i preti locali sono pochissimi e mons. Laurent Lompo è il primo arcivescovo di Niamey originario del Paese. La Chiesa nigerina, del resto, ha meno di cento anni e il contesto non è certo favorevole alla diffusione del cristianesimo.

«Io sono arrivato nell’ottobre del 2002 – ricorda don Domenico – e ho celebrato il primo battesimo nel 2006 del nostro ex autista. Poi, a Pasqua 2017, è stata la volta di un nostro infermiere, che ha ricevuto una vera chiamata. Aveva lavorato per dieci anni nel dispensario accanto alla cattedrale di Niamey. Poi, un giorno, ha incontrato me, in modo del tutto casuale, nel suo villaggio. Mi ha raccontato la sua storia. E ha chiesto il battesimo. Ora anche la sua famiglia è in cammino…».

La sua è stata una scelta coraggiosa. E presa molto sul serio. Si è infatti licenziato dall’amministrazione pubblica per essere più libero di aiutare i poveri che accoglie a qualsiasi ora del giorno e della notte. «Li aiuta come può – dice don Domenico – ma anche la popolazione lo aiuta come può. Si è creata una catena spontanea di solidarietà. Persino l’imam della moschea che l’aveva insultato quando è diventato cristiano – aggiunge – ha voluto ringraziarlo per averlo curato sino alla fine». Sono piccoli segni, ma molto importanti: «In un villaggio – ricorda – hanno radunato il consiglio degli anziani per deliberare di lasciare le persone libere di convertirsi al cristianesimo. In un altro, il capovillaggio, prima di morire, ha lasciato ai suoi figli la disposizione di donare un terreno alla missione per costruire una cappella, anche se ci sono solo tre  famiglie cristiane».

Don Domenico non smetterebbe mai di raccontare. Una delle sue storie preferite è quella di Marie, che fa la prostituta. Sembra uscita direttamente da un racconto evangelico attualizzato al XXI secolo. «Un giorno ho dato un passaggio a una prostituta. Una storia incredibile. Aveva avuto un figlio da un francese che se l’era portato con sé in Francia. Poi ha sposato altri due bianchi che se ne sono andati pure loro e infine due nigerini peggio dei primi. Alla fine, non aveva avuto altra scelta che prostituirsi. Un giorno mi ha chiesto,  tra un silenzio e un pianto: “Ma il Signore mi accoglierà con tutto il male che faccio?”. Allora le ho parlato del Dio di misericordia. Ha voluto imparare la preghiera del Padre Nostro nella sua lingua e da allora ha chiesto di fare un percorso che stiamo portando avanti con le suore della missione. Non è facile per lei. E non è facile per i nostri cattolici che non sempre sono aperti ad accettare i musulmani nigerini che cambiano vita. Ma queste sono le persone che Dio mette sulla nostra strada. È con loro che dobbiamo camminare».

Poi ci sono tutti gli altri, che in Niger sono al 99 per cento musulmani. Il dialogo della vita è una priorità. E in genere i rapporti sono buoni, anche se la situazione della sicurezza sta peggiorando un po’ ovunque nel Paese. Non solo al Nord o all’Est dove i confini porosi con il Mali e il Burkina Faso lasciano transitare gruppi terroristici o criminali, ma anche al Sud dove le incursioni del gruppo islamista Boko Haram della vicina Nigeria si sono moltiplicate, provocando migliaia di sfollati soprattutto nella zona sud-orientale.

«Qui dove siamo noi – riflette don Domenico – era considerata una zona tranquilla, ma ultimamente c’è stato qualche segnale preoccupante a causa degli attacchi di Boko Haram, e anche della penetrazione di ideologie più estremiste, tradizionalmente estranee all’islam locale».

Da queste parti, una figura molto autorevole e rispettata è quella del califfo Moussa Aboubakar Hassouni, guida spirituale della confraternita musulmana della Tijaniyya. ll califfo risiede a Kiota, cittadina nel Sud del Niger e uno dei più importanti luoghi di pellegrinaggio per i membri di questa grande confraternita sufi diffusa in tutto il Sahel. In particolare, nei giorni del Maoulud, la festa che celebra la nascita del profeta Maometto, Kiota è invasa da migliaia di fedeli che si accalcano attorno alla grande moschea.

«Con il califfo siamo amici – racconta don Domenico che si reca spesso in visita a Kiota -. Il problema sono soprattutto quei giovani che vengono mandati a formarsi in Paesi come il Qatar o l’Egitto e che ritornano qui indottrinati e radicalizzati. Rappresentano innanzitutto una minaccia per gli altri musulmani più moderati, con i quali invece è possibile dialogare per mettere un freno all’avanzata dell’estremismo e dell’intolleranza».

Uno degli strumenti più efficaci, qui come altrove, è quello dell’istruzione. La missione cattolica di Gaya gestisce una scuola materna e una elementare con circa 160 bambini grazie anche alla presenza di tre religiose provenienti dal Benin. Quella di Dosso ha 250 iscritti e 4 suore provenienti dal Burundi. La maggioranza degli insegnanti è musulmana, ma questo non crea particolari problemi. «Il paradosso – ammette don Domenico – è che la maggioranza dei nostri cristiani non riesce a pagare le rette. Per questo stiamo cercando delle borse di studio per aiutarli. Crediamo profondamente che sia fondamentale che bambini di diverse religioni crescano insieme e imparino a conoscersi e a rispettarsi. Solo così si può costruire un futuro di fratellanza in cui le religioni diventano strumento di pace e non di guerra».