Clima, l’Africa chiama

Clima, l’Africa chiama

Tra il dilagare di eventi naturali estremi e le conseguenze della guerra, la COP 27 dell’ Onu si tiene dal 6 al 18 novembre a Sharm El-Sheikh, nel continente più vulnerabile

Aridità, ondate di calore, incendi. Ma anche eventi estremi come tifoni e alluvioni apocalittiche: le inondazioni che a fine agosto hanno sommerso un terzo del territorio pachistano, così come la siccità storica che sta flagellando il Corno d’Africa, rappresentano le prove più drammatiche degli effetti, già paurosamente concreti, dei cambiamenti climatici in atto. Se a questo scenario si aggiunge l’emergenza energetica globale innescata dal conflitto in Ucraina risulta evidente che la COP 27, la Conferenza delle parti delle Nazioni Unite dedicata al clima, al via il 6 novembre nella città egiziana di Sharm El-Sheikh (fino al 18), arriva in un momento particolarmente critico. Il fatto che i leader internazionali si riuniscano a discuterne proprio sul suolo africano assume un significato singolare se si pensa che il continente, nonostante il suo bassissimo contributo alle emissioni di gas serra (il 3% del totale circa), resta il più vulnerabile alle intemperanze di una natura ferita e depredata: quella «sorella madre terra che grida» e che «in balia dei nostri eccessi consumistici ci implora di fermare i nostri abusi e la sua distruzione», come ha affermato Papa Francesco nel suo messaggio per la Giornata del creato. Una fragilità legata in particolare al settore agricolo, visto che il 90% dell’agricoltura alimentata dalla pioggia a livello globale è praticata nell’area subsahariana.

E l’Africa a Sharm El-Sheikh punta a fare sentire la propria voce, il più possibile unita: per questo in vista del vertice i ministri africani delle Finanze, dell’Economia e dell’Ambiente si sono incontrati in Egitto per coordinare la propria azione di pressione. In particolare su uno dei punti più critici in agenda, e cioè i finanziamenti per aiutare i Paesi poveri a ridurre le emissioni e a rafforzare la loro resilienza alle emergenze: l’impegno collettivo delle nazioni più ricche di mobilitare almeno 100 miliardi di dollari all’anno dal 2020 non si è ancora concretizzato. Dal 2017 è stato stanziato appena il 54% dei fondi richiesti, mentre il costo dell’impatto di eventi meteorologici estremi si è impennato: solo nel 2021 è stato stimato in 329 miliardi di dollari, cioè quasi il doppio di quanto versato in aiuti “verdi”. E c’è da aspettarsi che l’attuale crisi dell’energia, che ha provocato un aumento a catena dei prezzi a livello internazionale, non farà che disincentivare i donatori.

Tra questi figurano sia attori pubblici (come Banche centrali e fondi per lo sviluppo di organizzazioni internazionali), il cui intervento dovrebbe agevolare la costruzione delle infrastrutture necessarie a transitare verso un’economia più sostenibile, sia privati, i cui investimenti puntano a incentivare tra l’altro l’innovazione tecnologica. E vista la natura ormai essenziale dei fondi rivolti all’adattamento alle nuove condizioni climatiche, ci si aspetta che a Sharm El-Sheikh le delegazioni dei Paesi in via di sviluppo concentreranno le proprie istanze su questo filone, che include attività di approvvigionamento idrico e interventi su agricoltura, silvicoltura e pesca.
Tra le priorità figurano la realizzazione di sistemi di allerta contro gli eventi estremi, la fornitura ai contadini di semi resistenti alla siccità, l’aumento della produzione di energia rinnovabile e la riconversione delle economie fondate sull’esportazione di fonti fossili.

L’Egitto, che in questi mesi sta intensificando gli sforzi per trasformarsi in un hub regionale dell’energia pulita, come padrone di casa della COP 27 intende porsi quale capofila delle rivendicazioni del continente: «È ora che la comunità internazionale adempia ai propri obblighi, come stabilito nell’accordo di Parigi», ha affermato il ministro dell’Ambiente egiziano Yasmine Fouad.
Allo stesso accordo siglato nel 2015, che mira a limitare l’aumento della temperatura a 1,5°C e a cui a ottobre ha aderito anche il Vaticano, allude Papa Francesco nel suo messaggio per la Giornata del creato, che cita sia la Conferenza di Sharm El-Sheikh sia la Cop15 sulla biodiversità, che si terrà in Canada a dicembre. Di fronte alle grida «dei più poveri tra noi», scrive Francesco, «dobbiamo modificare gli stili di vita e i sistemi dannosi». Nel merito il Pontefice, ricordando l’esistenza di un «debito ecologico delle nazioni più ricche», chiede loro «passi più ambiziosi» nel contesto dei due summit alle porte.
Una proposta concreta arriva da Oxfam, che nel suo ultimo rapporto lancia l’allarme: «In soli 6 anni nei 10 Paesi che hanno registrato più eventi climatici estremi il numero di persone colpite dalla fame è più che raddoppiato».
E rilancia: «Tassare l’1% dei profitti delle multinazionali che producono energia da combustibili fossili porterebbe circa 10 miliardi di dollari, sufficienti a far fronte alla crisi alimentare».
Un appello arriva anche da un’altra area del mondo pesantemente esposta agli effetti del riscaldamento globale: l’Oceania. In un documento della Caritas regionale le nazioni insulari chiedono che «i Paesi ad alto reddito aiutino a costruire la resilienza necessaria a proteggere le comunità locali». Servirebbe almeno un miliardo di dollari all’anno: oggi ne arriva la metà.

A fianco delle richieste di maggiori impegni finanziari, le Chiese un po’ dappertutto nel mondo si stanno mobilitando con iniziative volte alla promozione di una nuova coscienza ambientale a partire dalla base. Mentre a ottobre l’Unione internazionale delle superiore generali (Uisg) ha lanciato la compagna “Sisters for the environment”, il gruppo Climate Yes (Youth Ecumenical Summit), formato da giovani di diverse confessioni cristiane, ha organizzato eventi in sette località – da Londra e Milano fino a Johannesburg, Nairobi e le Seychelles – per riunire attivisti in grado di interloquire con i politici internazionali. E in Egitto, Paese ospite della Cop 27, il Patriarcato copto ha lanciato un programma di piantumazione di alberi intorno ai luoghi di culto della comunità. Un gesto dai risvolti concreti ma anche «dal profondo significato spirituale».