In Malawi la «casa a metà strada» fuori dal carcere

In Malawi la «casa a metà strada» fuori dal carcere

Fondata nel 2006 la struttura di Balaka ha accompagnato centinaia di ex detenuti nel passaggio dal carcere alla società civile. E ora è ufficialmente un’alternativa alla prigione riconosciuta dallo Stato. Padre Gamba: «È difficile perdonare. Ma un passo alla volta il lupo e l’agnello hanno imparato a stare insieme»

 

«La scelta coraggiosa di un piccolo Paese dell’Africa» che ha integrato al proprio sistema carcerario un modello correzionale volto al recupero della persona e non alla sua punizione. In Malawi dal 16 novembre è ufficialmente una prigione di Stato anche la “Half Way Home” (“Casa a metà strada”) di Balaka. Fondata nel 2006, negli anni la struttura ha accompagnato centinaia di ex detenuti nel passaggio dal carcere alla società civile.

«L’obiettivo è il recupero di chi nella vita si è perso e domanda una seconda possibilità per provare la sua conversione – racconta padre Piergiorgio Gamba, missionario monfortano a Balaka ed ispettore delle carceri del Malawi -. Il processo di reinserimento avviene attraverso l’insegnamento di un mestiere. Dal sarto al carpenterie fino al falegname. In questo modo diamo un futuro ed una possibilità a chi esce dal carcere. Al momento, infatti, circa il 30% degli ex detenuti è recidivo e ritorna in prigione. Lo ha detto anche il ministro degli interni, Richard Benda, quando ha visitato la struttura il 16 novembre. Ne ha apprezzato la missione. E ha consegnato agli ex prigionieri un certificato per il mestiere appreso e l’attrezzatura per avviare la propria attività».

Il ministro ha anche ufficializzato la “Half Way Home” all’interno del sistema carcerario del Malawi. «Non aggiungeremo mura, filo spinato o guardiole per i soldati – continua il missionario bergamasco, che a Balaka ha avviato anche una stamperia ed un giornale -. Ci saranno venti guardie, altrettanti istruttori, e un centinaio di carcerati che vivranno il loro ultimo anno di prigione prima di tornare ai rispettivi villaggi».

La battaglia per il reinserimento sociale dei detenuti è una costante dell’impegno di padre Piergiorgio, in Malawi dal ’76. «Qui è difficile perdonare, perché il sistema giudiziario locale spesso si accontenta di condannare. Ci sono voluti anni, un passo alla volta, per ottenere questo risultato. Il primo era stato l’impegno a ridare il voto a chi è in carcere. Nessuno credeva fosse possibile e quando la richiesta è stata presentata in parlamento, la risposta è stata che un coccodrillo non cambia anche se al collo gli metti la cravatta. Eppure, i carcerati, eccetto i condannati a morte, oggi possono votare».

Poi si era ottenuta l’approvazione del Community Service, tramite cui «i condannati a meno di un anno avevano la possibilità di lavorare in progetti comunitari, come la pulizia di scuole e ospedali. Non è stato facile: ancora oggi molti magistrati preferiscono la prigione come mezzo di punizione». Era stato poi avviato il programma scolastico, «che aveva trasformato i carcerati in studenti, con tanto di esami a fine anno. Insegnanti e alunni erano tutti prigionieri, a cui si evitavano i lavori forzati della condanna. La guardia carceraria, che insegnava i diritti umani a studenti non certamente innocenti, sembrava la visione di Isaia: il lupo e l’agnello, insieme. Successivi progetti hanno riguardato il Natale dei bambini che hanno i genitori in carcere e la ricostruzione, ad opera degli stessi detenuti, della prigione di Ntcheu, ora provvista di spazi e servizi igienici».