Il musulmano disabile che ha salvato la chiesa dei sahrawi

Il musulmano disabile che ha salvato la chiesa dei sahrawi

In un reportage di El Confidencial la storia di Bouh, che con grande coraggio ha difeso l’ultima chiesa cattolica del Sahara dalla distruzione affinché con essa non svanissero anche le radici sahrawi che vi erano intrecciate. Una chiesa che oggi è tornata a vivere grazie ai migranti giunti a Dakhla dall’Africa subsahariana

 

Le tracce dell’occupazione spagnola in Marocco sono quasi del tutto scomparse, ma nella zona del Sahara occidentale i segni della presenza iberica si possono ancora ritrovare in quella che una volta prendeva il nome di Villa Cisneros, oggi più comunemente conosciuta come Dakhla.

Se nel secolo scorso era ancora una città che ospitava una fiorente cittadella spagnola, oggi del passato coloniale mantiene solo i tombini e la chiesa. L’edificio è oggi visitabile grazie a Semlali Mohamed Fadel. Anche se musulmano, la domenica lo si può incontrare mentre attraversa le navate della chiesa sulla sua sedia a rotelle.

Enrique Vaquerizo ha raccontato per il quotidiano on line spagnolo El Confidencial l’incredibile storia dell’uomo che ha salvato la chiesa cattolica di Nuestra Señora del Carmen dalla distruzione.

Sahrawi, musulmano, disabile e attivista, Semlali Mohamed Fadel, conosciuto come “Bouh”, conosce e parla della chiesa come se fosse una guida turistica. Nato nel 1965 e figlio di un militare sahrawi legato all’esercito spagnolo, venne inviato in Spagna all’età di quattro anni dopo aver contratto la poliomielite. Passò sei anni a Las Palmas con i fratelli di San Juan de Dios e decise di tornare in Marocco nel 1982, ma ci mise poco a rendersi conto che Villa Cisneros come la conosceva lui non esisteva più. Dopo la ritirata delle potenze coloniali europee dall’Africa del Nord, infatti, il territorio del Sahara occidentale è stato occupato inizialmente dalla Mauritania e poi dallo stesso Marocco, e così i sahrawi hanno visto svanire il loro sogno di indipendenza.

Bouh, che racchiude in sé sia l’identità spagnola che quella sahrawi, e dopo essere cresciuto in una realtà cattolica, si ritrovò in un paese che non sentiva suo. “Non sapevo molto dell’Islam, mi ero dimenticato come si parlasse arabo… A Las Palmas andavo a messa però non facevo la comunione, stavo in chiesa però tutti sapevano che ero musulmano e mi rispettavano. Al mio ritorno mi ero improvvisamente trasformato in un estraneo”. Bouh confida che nel periodo subito dopo il suo ritorno era frequente il pensiero del suicidio a causa della sua disabilità. “Perché a me? Perché io?” erano le domande che lo assillavano.

In risposta a queste elucubrazioni Bouh cercò rifugio in un posto che gli potesse essere familiare, ma una volta giunto alla chiesa di Nuestra Señora del Carmen la trovò chiusa e occupata dai soldati. L’esercito marocchino infatti cominciò a utilizzarla come quartier generale dopo la ritirata spagnola.

“Quando gli spagnoli se ne andarono, la comunità cristiana della città scomparve con loro. Negli anni seguenti all’occupazione non c’erano più di 5 o 6 spagnoli. I marocchini non hanno lasciato qui niente che richiamasse la Spagna, anche le prostitute che erano morte furono dissotterrate e portate a Fuerteventura”. L’unica presenza ufficiale alla quale fu permesso di restare furono i sacerdoti, i quali per dovettero comunque abbondonare l’antica Villa Cisneros e trasferirsi a El Aaiùn, a circa 550 chilometri di distanza da Dakhla.

Anche Luis Ignacio Ruiz, sacerdote a Dakhla, ricorda i tempi in cui la presenza cattolica era più nutrita. “Nel ’75 se ne andarono tutti, rimasero solo i padri, restarono per amicizia con i sahrawi e perché il Vaticano ci chiese di restare. I marocchini occuparono la chiesa per diversi anni per fare pressione, perché l’unica testimonianza straniera rimasta dopo l’occupazione eravamo noi. In questo modo si evitavano i testimoni.”

Negli anni successivi il governo di Rabat promosse l’occupazione del territorio con delle politiche di insediamento. Le proteste dei sahrawi furono respinte e soppresse dalle forze di polizia e lo stesso Bouh dovette passare un anno in una sorta di esilio a El Aaiùn a causa della sua partecipazione alle manifestazioni.

Le politiche messe in campo dal governo marocchino hanno consentito che la città crescesse fino a ospitare oggi più di centomila abitanti. Dakhla è nota per essere una delle più grandi zone di pesca al mondo e un paradiso per gli amanti del kite-surf.

Nonostante gli edifici spagnoli fossero già in rovina da tempo, e contro le raccomandazioni dell’UNESCO, nel 2004 il governo di Rabat decise di eliminare anche le ultime vestigia del passato coloniale distruggendo un forte spagnolo del XIX secolo, la costruzione più antico del Sahara occidentale.

Se non fosse intervenuto Bouh la stessa sorte sarebbe capitata anche alla chiesa dell’ex enclave spagnola di Villa Cisneros. Alla vista dei militari che stavano per distruggere l’edificio sacro e avevano già abbattuto la parte posteriore, un vicino andò a chiamare Bouh, il quale si frappose tra la chiesa e la scavatrice. “I militari mi dissero che (la chiesa) era inutile, era abbandonata e sarebbe caduta… In più era un luogo cristiano e loro erano musulmani. Io risposi che no, era nostro, apparteneva al popolo sahrawi e nessuno lo poteva toccare. Corsi a chiamare i miei vicini e non ci muovemmo finché non arrivò il governatore”.

Da quel momento Bouh promosse una campagna di agitazione sociale, cercò di contattare il prefetto, le autorità di El Aaiùn  e il Vaticano, finché il governatore di Dakhla non acconsentì a lasciare la chiesa. In cambio chiese la fine delle proteste riguardo alla parte posteriore che era già stata distrutt, e ora Nuestra Señora del Carmen si erge come unica testimonianza di un’epoca passata.

La chiesa però non è andata incontro alla desolazione più totale come ci si potrebbe aspettare, anzi, da qualche anno ha ritrovato nuova vita grazie alle rotte di migranti che hanno virato verso questa zona. Oggi l’edificio ospita diversi rifugiati provenienti dalla’Africa subsahariana che si fermano a Dakhla per una quantità di tempo che varia da qualche mese a qualche anno. Sono circa 4.000 e si dedicano prevalentemente al commercio collegato alla pesca che permette loro di guadagnare qualcosa per poi proseguire il loro viaggio fino a Tangeri o Nador e poi attraversare lo Stretto di Gibilterra.

Molti sono quelli che ora frequentano la chiesa, come per esempio Pierre André Sené, originario del Senegal. Appena varcato il confine marocchino cercò un santuario cattolico ma non riuscì a trovarne. Fu grazie alla croce che teneva al collo che un anziano sahrawi gli indicò la direzione per la chiesa di Nuestra Señora del Carmen. La prima volta che partecipò alla messa c’erano solo due turisti francesi, così Pierre cominciò a invitare gli altri migranti a unirsi a lui. Oggi Pierre è responsabile dei progetti sviluppati dalla Missione cattoica in unione a Caritas a favore dei migranti. “Il migrante che arriva non conosce nessuno, non ha alloggio o denaro dopo mesi di viaggio. Qui li accompagniamo e i aiutiamo con l’assistenza medica. La maggior parte è ossessionata dalla traversata in Europa. Arrivano a migliaia e il numero continua a salire”.

Chi si ferma lavora circa 12 ore per un salario di 10 euro, come Jean che dalla Costa d’Avorio ha tentato la fuga verso il continente europeo, ma è stato fermato nella parte settentrionale del Paese dalla polizia marocchina. A seguito degli accordi tra UE e Marocco, centinaia di migranti vengono quotidianamente rispediti a Sud del Paese, dove si mettono all’opera per cercare un lavoro e poi ripartire. Jean è uno dei tanti che sta aspettando il momento propizio per ripartire, ma nel frattempo guida camion frigoriferi, si occupa della pulizia del pesce, aiuta nella produzione di olio e la domenica partecipa con gioia alla messa, che lo aiuta a non perdersi d’animo. Per Jean la comunità cattolica è un rifugio sicuro, un posto dove si trova sempre qualcuno con cui confidarsi.

Padre Luis Ignacio Ruiz assicura che la migrazione abbia rinvigorito la comunità cattolica di Dakhla e racconta di come molti migranti, una volta presa la decisione di attraversare il Mediterraneo vadano da lui a chiedergli una benedizione.

Poco lontano dal centro di Dakhla si trova quello che gli abitanti chiamano “il cimitero delle lettere”, perché alcune iniziali campeggiano sui muri esterni dell’unico cimitero non musulmano della città. Qui vengono sepolti i corpi dei migranti che non sono riusciti a completare la traversata verso le Canarie. Se nessuno li reclama un’associazione li raccoglie e li seppellisce qui.

Bouh dopo molti anni ha finalmente trovato il suo posto nella città. Oltre ad avere ottenuto un lavoro nel consiglio comunale, ha dato vita, con l’aiuto della parrocchia, ad una associazione per persone disabili. L’organizzazione si occupa di ragazzi e ragazze con diversi tipi di disabilità, ma incontra la resistenza di molte famiglie che vedono la disabilità come una condanna e nascondono i figli in casa perché ne hanno vergogna.

Spesso Bouh fa visita alla chiesa, soprattutto durante le messe, a tal punto che molti lo scambiano per un cristiano, anche se da parte dei marocchini viene additato come un infedele. Bouh sembra non darci peso dato che comunque mantiene dei buoni rapporti con i suoi colleghi al municipio e nella sua associazione trovano posto anche molti giovani marocchini. “I poteri qui hanno capito che a causa delle pressioni dei giornalisti e dei vicini, per molte cose che dico non possono farmi niente”. Nel chiedere a Bouh che cosa l’abbia spinto a fare tutto ciò, risponde che la sua motivazione è stata “mostrare alle autorità marocchine che non potevano fare tutto ciò che volevano. Se la Chiesa fosse stata distrutta, parte della storia non solo spagnola, ma anche del popolo saharawi sarebbe stata cancellata”. Dakhla quindi appare agli occhi del visitatore come una città in continuo mutamento, ma grazie alla forza di volontà e al carisma di personaggi come Bouh quest’area da sempre contesa può mantenere unite dentro di sé tutte le diverse anime che l’hanno attraversata.

 

L’immagine è tratta dal reportage pubblicato da El Confidencial