Si può fare di più

Si può fare di più

Chi lavora ogni giorno sul campo per salvare più vite possibile sottolinea le profonde disparità nei progressi raggiunti nella lotta contro la mortalità infantile e materna. Specialmente in Africa

 

Sentir dire che una donna è morta di parto qui è quasi quotidiano», afferma don Lucio Brentegani, sacerdote fidei donum di Verona da dieci anni in Guinea Bissau.

«Nelle baraccopoli di Nairobi la percentuale di donne che muore di parto e quella di bambini che non sopravvivono dopo la nascita è la più alta di tutto il Paese; c’è una differenza abissale dal centro città alla periferia», sottolinea dal Kenya un medico italiano, Gianfranco Morino. Paolo Lanzoni è un pediatra del Cuamm appena rientrato dal Mozambico: «Nelle zone rurali – dice – la mortalità materna non si è ridotta quasi per nulla e i parti assistiti sono solo il 34 per cento, contro l’81 per cento delle aree urbane».

A livello globale negli ultimi 26 anni i progressi nella lotta alla mortalità infantile e a quella materna sono stati notevolissimi. Se si considerano i bambini sotto i cinque anni, oggi ne muore la metà rispetto al 1990: da 12,7 milioni all’anno a 5,9 milioni nel 2015. La mortalità materna è calata un po’ meno, ma comunque del 45%: si è passati da circa 500 mila decessi all’anno per cause collegate al parto a un po’ meno di 300 mila. Sono risultati incoraggianti, anche perché c’è stata un’accelerazione dei progressi rispetto ai decenni precedenti, in particolare a partire dal 2000, l’anno in cui la comunità internazionale ha lanciato gli otto Obiettivi di sviluppo del Millennio. Il quarto e il quinto obiettivo riguardavano appunto la lotta alla mortalità infantile e materna: si prefiggevano di ridurre la prima di due terzi e la seconda di tre quarti. Eppure, nonostante i progressi a livello globale, le voci di chi lavora sul campo testimoniano profonde disparità. Ma partiamo dal bicchiere mezzo pieno: «Le vaccinazioni hanno avuto un’importanza fondamentale per abbassare le morti dei bambini dopo il primo anno di età» spiega il direttore di Unicef Italia Paolo Rozera. «I vaccini salvano la vita e la loro diffusione, anche nei Paesi in via di sviluppo, ha fatto la differenza. Ma immunizzare non è sufficiente, per questo Unicef integra questa azione con la lotta alla malnutrizione e a interventi per la salute sia delle mamme che dei bambini. Non abbiamo mai aggredito un aspetto singolo del problema, ma abbiamo cercato di sviluppare una visione integrata e di raggiungere, sui territori, anche i piccoli centri per una maggiore capillarità degli interventi. Ci siamo inoltre resi sempre più conto che è importante coinvolgere le comunità, che non possono subire gli interventi ma devono esserne protagoniste».

Lo stesso Unicef, però, evidenzia che i progressi fatti non sono stati sufficienti a raggiungere gli Obiettivi del Millennio. E nel suo ultimo rapporto segnala che, senza nuovi interventi, entro il 2030 almeno 68 milioni di bambini sotto i 5 anni moriranno di cause che sono prevedibili ed evitabili.

Uno dei problemi aperti è la disparità fra aree geografiche: «I progressi non sono stati gli stessi nelle diverse aree del mondo – sottolinea ancora il direttore di Unicef Italia -. L’avanzamento più rapido si è avuto in America Latina e in Asia meridionale, mentre in Asia orientale e in Africa subsahariana i progressi sono insufficienti e un alto numero di Paesi rimane fuori target. In queste regioni il rischio per un bambino di non raggiungere i cinque anni è 15 volte più alto che in un Paese ad alto reddito».

Prematurità, polmonite, complicazioni durante il travaglio e il parto, diarrea, sepsi, malaria sono le cause principali della mortalità infantile. A pesare, e non poco, è però anche la malnutrizione: almeno la metà dei decessi sono legati a un’alimentazione carente. Nel quadro globale dei progressi, c’è un’altra ombra: «I neonati sono rimasti indietro – mette in evidenza il dottor Lanzoni -. Circa il 45% delle morti di bambini sotto i cinque anni si concentra nel primo mese di vita e il declino della mortalità neonatale è stato più lento rispetto a quello dei bambini sopra il primo anno di età».

I numerosi casi di morte prima, durante o dopo il parto mettono in evidenza come la salute dei bambini sia profondamente legata a quella delle madri, e quanto contino gli standard di assistenza sanitaria ai quali queste ultime possono accedere.

«La maternità non dovrebbe essere una malattia per la quale si rischia di morire – afferma don Lucio Brentegani -, ma purtroppo in situazioni di miseria anche fare un figlio comporta un rischio alto». Don Lucio è il direttore del consiglio della Caritas della diocesi di Bafatá, che a partire dal 2000 ha promosso il progetto “Maternità senza rischio”, con l’obiettivo di ridurre la mortalità delle donne durante la gravidanza. All’interno di due strutture ospedaliere, a Bafatá e Gabu, sono state create due “case per le mamme” che possono ospitare fino a 25 donne nelle ultime fasi della gravidanza o quando sorge qualche tipo di complicazione. «I medici e gli infermieri degli ospedali seguono l’aspetto sanitario, mentre noi della Caritas ci occupiamo della logistica e della sensibilizzazione nei villaggi, in collaborazione anche con le diocesi e le parrocchie – spiega don Lucio -. Nelle case per le mamme vengono accolte le donne ad alto rischio ostetrico e vi restano il tempo necessario, anche fino al parto. Durante questo periodo hanno facile accesso a visite ed esami e possono frequentare corsi di alfabetizzazione, cucina e nutrizione, igiene e prevenzione delle malattie, in modo che possano poi trasmettere a loro volta queste competenze ad altre donne al ritorno nei loro villaggi».

Il programma, avviato nel 2000 da padre Alberto Zamberletti, missionario del Pime e medico, nella regione di Bafatá, è stato poi esteso dalla Caritas anche alla regione di Gabu. Prevede un’ampia azione di sensibilizzazione nei villaggi e un’attività di contrasto alla malnutrizione delle donne e dei bambini attraverso sei centri di recupero nutrizionale sul territorio. «In entrambe le regioni sia la mortalità materna che quella infantile sono altissime – sottolinea don Lucio -. La percentuale dei bambini che non arriva a cinque anni di età è del 21 per cento». Dal Kenya il dottor Gianfranco Morino, che da oltre vent’anni si occupa di sanità e cooperazione nelle baraccopoli di Nairobi, mette in evidenza profonde disparità. «Bisogna dire che gli Obiettivi di sviluppo hanno aperto questo millennio con una grande speranza – premette -. Soprattutto nei primi anni c’è stato un impegno notevolissimo da parte della comunità internazionale per ridurre la mortalità infantile e quella materna. I report, tuttavia, non danno conto di profonde diseguaglianze, anche all’interno di uno stesso Paese e a volte di una stessa città. Nelle baraccopoli di Nairobi, ad esempio, la mortalità sotto i cinque anni è di 130 su 1.000 bambini nati vivi, la più alta di tutto il Kenya, superiore a quella delle zone rurali. Per quanto riguarda la mortalità materna ci si aspettava un cambiamento più deciso. La morte delle donne per complicanze relative alla gravidanza o al parto negli slum è legata a condizioni di povertà estrema, in particolare di donne single o di donne che rimangono incinte dopo una violenza. Una parte delle complicanze è dovuta agli aborti clandestini».

Nella capitale del Kenya, l’organizzazione World Friends che supporta il dottor Morino è riuscita a innalzare la percentuale di assistenza alla gravidanza e al parto creando nelle baraccopoli piccole unità sanitarie di riferimento: «Si tratta spesso solo di un locale all’interno di una parrocchia o della sede di una organizzazione non governativa, dove però un team sanitario si può recare regolarmente per le visite e il monitoraggio della salute delle donne in gravidanza» spiega Morino. In alcuni contesti, il lavoro costante sul campo ha permesso di raggiungere buoni risultati.

E’ il caso del programma “Prima le mamme e i bambini” promosso da Medici con l’Africa-Cuamm. In cinque anni l’organizzazione con sede a Padova ha raddoppiato l’assistenza sanitaria prestata alle donne in gravidanza in quattro dei Paesi africani dove è presente (Angola, Etiopia, Tanzania e Uganda), arrivando a quasi 135.000 parti assistiti. Di questi 94.570 sono stati effettuati nei centri periferici e 40.370 negli ospedali. «Gli Obiettivi del Millennio hanno rappresentato una cornice concettuale che ha permesso a tutti gli attori, locali e internazionali, di avere un riferimento certo sulle priorità e sugli obiettivi da raggiungere – afferma Giovanni Putoto, coordinatore di questo programma del Cuamm -.

In questi anni abbiamo anche capito meglio i fenomeni che stanno dietro la mortalità materna, le barriere di tipo culturale, economico e geografico che impediscono alle donne di avere accesso a un parto sicuro. Restano diversi problemi aperti: i divari enormi fra Paesi e gruppi sociali, le vecchie povertà dei contesti rurali alle quali si aggiungono le nuove povertà urbane, con megalopoli cresciute a dismisura dove l’assistenza sanitaria è una vera sfida».

I finanziamenti messi in campo sono aumentati, ma gli aiuti non seguono solo logiche di tipo tecnico ma anche politico: «Capita – sottolinea Putoto – che ci siano Paesi con bisogni acuti poco aiutati e altri dove si concentra la cooperazione internazionale».

E così il tema delle disuguaglianze tocca sul vivo anche chi, sul campo, opera ogni giorno per far vincere la vita.