Porto la bellezza tra i ragazzi delle favelas

Porto la bellezza tra i ragazzi delle favelas

Ex bambina ribelle, suor Chiara Di Brigida è oggi missionaria nel Nord del Brasile, alle porte dell’Amazzonia, dove è a fianco dei poveri nelle periferie urbane. Con un’attenzione speciale ai giovani

Parlare di amicizia, bellezza, fede, sui marciapiedi di una favela ostaggio dei narcotrafficanti a Belém, nell’Amazzonia brasiliana? Suor Chiara l’ha fatto. Ed è uno dei ricordi più forti dei suoi primi otto anni di missione nel Nord del grande Paese latinoamericano, terra di contraddizioni estreme, che le è subito entrato nel cuore.
«Ho scoperto di essere attratta dai casi disperati!», scherza la suora nata a Roma e cresciuta a Pavona, un paese dei Castelli Romani, nella diocesi di Albano.
In effetti, già da piccola suor Chiara Di Brigida aveva dimostrato di essere una tipa “tosta”. «Di noi cinque fratelli ero quella che dava più pensieri a mamma e papà…», confessa. Nata quarantadue anni fa in una famiglia cattolica praticante, a nove anni decise che non avrebbe più frequentato la parrocchia: «Ebbi una specie di litigio con Dio: non capivo il senso dei gesti che vedevo fare in chiesa, ero alla ricerca di qualcosa di autentico».
Così, per molto tempo, Chiara stette alla larga dalle sacrestie. «I miei mi accompagnavano al catechismo, ma poi appena se ne andavano io scappavo nel campetto a giocare a basket!», racconta. «A scuola andavo male, facevo disperare tutti». Però frequentava gli scout: «Amavo molto lo stile del gruppo, il contatto con la natura, le relazioni».
Poi, a diciotto anni, l’evento che avrebbe cambiato la sua vita. «Un mio amico morì all’improvviso per un incidente stradale. Fu uno shock. Capii che la vita è breve e che dovevo fare qualcosa per darle senso. E rimisi piede in parrocchia dopo tanti anni».
Per Chiara fu un nuovo inizio. Entrò in un gruppo di animatori con cui cominciò un cammino di scoperta della fede. «Quell’estate partecipai alla Giornata mondiale della gioventù a Parigi: un’esperienza molto forte. Al ritorno, andai dal parroco e gli dissi: “Insegnami a pregare”».
Il percorso della ragazza fu intenso e molto rapido. A 19 anni aveva già capito che voleva dare tutta la sua vita a Dio. Possibile? «Sì, la mia è stata una vocazione lampo!», ride. «In Gesù avevo trovato quel senso che stavo cercando e quindi mi ci buttai a capofitto. Così, mentre lavoravo come maestra cominciai a frequentare la vicina casa delle suore Apostoline, dove conobbi anche padre Franco Cagnasso del Pime, che con i suoi racconti sul Bangladesh mi fece innamorare della missione». Per questo fu provvidenziale l’incontro con suor Gabriella Tripani, allora vicaria generale delle Missionarie dell’Immacolata.
«Nell’aprile del 2003 andai a Monza per trascorrere qualche giorno nella loro casa. Al ritorno, dissi ai miei genitori che mi sarei fatta suora». La famiglia non ebbe nemmeno il tempo di realizzare la notizia, che già la figlia “sca­pestrata” era pronta a trasferirsi a Monza e, ad agosto, a partire per un’esperienza mis­sionaria di un mese in Bangladesh. «A ottobre entrai nell’Istituto e dopo quattro anni diventai suora. Finché, nel 2012, arrivò il momento della partenza. Destinazione: Nord del Brasile».

Manaus, la capitale del grande Stato di Amazonas, accolse suor Chiara con il suo clima caldo e umido – «il mio corpo impiegò qualche mese per abituarsi…» – e la sua gente sorridente. «I primi tempi stavo ancora studiando il portoghese ma già cominciavo a intrecciare belle relazioni con gli abitanti di Cidade Nova, la periferia dove mi avevano inviata. Le persone mi dicevano, ridendo: “Tu non sai parlare ma parli comunque!”. Dopo due mesi fui scelta come responsabile della pastorale liturgica di una parrocchia a cui facevano riferimento ben dodici comunità nella campagna circostante». Per la giovane suora si trattava di visitarle, ascoltarne le necessità e accompagnare la formazione dei laici impegnati nei diversi servizi, dai cori fino alla stessa celebrazione della Parola, che da quelle parti deve spesso fare a meno del sacerdote.
Una bella sfida, che l’avrebbe aiutata nella successiva tappa della sua missione, dove fu inviata sette mesi dopo: Macapá, sulla sponda settentrionale del Rio delle Amazzoni, vicino alla sua foce, proprio alle porte della foresta. «La comunità Giovanni Paolo II, dove affiancai padre Castrese Aleandro del Pime e una équipe locale, era vastissima e costituiva quella che in Brasile si chiama una “invasione”», racconta suor Chiara. «Si tratta di un insediamento non autorizzato che la gente crea tagliando la vegetazione e rubando così nuovi pezzi di terreno alla foresta. In questi contesti dove manca tutto la Chiesa cerca di portare una presenza, magari costruendo una cappella, fatto che a volte velocizza anche l’arrivo dell’elettricità e dell’acqua…».
Alla parrocchia facevano riferimento diverse comunità da visitare settimanalmente – dopo lunghi tragitti in jeep – per portare l’Eucarestia, visitare i malati, coordinare la catechesi e il consiglio pastorale. Alla religiosa romana era affidata anche la zona di Curiaú, abitata da centinaia di famiglie quilombolas, discendenti cioè da schiavi neri fuggiti dagli abusi a cui erano stati sottoposti durante la costruzione della fortezza di São José, nel XVIII secolo.
«Era come un pezzo di Africa a otto chilometri da Macapá», racconta. «Quando ci incontra­vamo, la comunità si riuniva in cerchio: in mezzo c’era il fuoco con il pentolone dei fagioli e si condivideva la cena discutendo dei battesimi, dei matrimoni… E poi si concludeva sempre con danze e canti». A risuonare erano i tamburi del marabaixo, lo stesso ritmo attraverso cui gli schiavi ammassati nelle navi negriere cercavano di alleviare la loro sofferenza.

Discendevano invece dagli indigeni delle isole fluviali che occupano la foce del Rio delle Amazzoni i parrocchiani che suor Chiara avrebbe affiancato per sette anni a Belém, città portuale sulla sponda sud del grande fiume, capitale dello Stato del Pará.
«Anche qui vivevamo in periferia e la nostra gente era molto semplice e povera. In quella zona c’è ancora la lebbra, per non parlare della malaria e della dengue che sono diffusissime», racconta la missionaria. «Proprio vicino alla nostra casa, oltre un terribile canale di scolo in cui sono morti annegati tanti bambini, sorge il malfamato quartiere di Guamá. Una zona dove nessuno entra se non è invitato, men che meno la polizia, e dove a dettare legge sono i trafficanti di droga, che dalle loro ville lussuose mandano i bambini a spacciare, con il tacito assenso dei genitori che hanno bisogno dei pochi reais di compenso per poter mangiare».
Suor Chiara capì che, oltre quel canale, a tanti ragazzi era negata persino la possibilità di immaginarsi una vita diversa. E decise di attraversarlo. «Per entrare nel quartiere fu necessario essere “presentata” a uno dei signori della droga, dopodiché ero libera di andare e venire, a mio rischio e pericolo naturalmente. La mia idea non era certo quella di ingaggiare una lotta aperta contro i trafficanti, ma di provare a portare una prospettiva nuova ai giovani. Così, con l’aiuto di alcuni parrocchiani, abbiamo iniziato a fare catechesi per la strada con i bambini».
Al centro delle preoccupazioni della missionaria c’erano però anche gli adolescenti, molti dei quali finivano intrappolati nelle maglie della tossicodipendenza.
«Cominciai a invitare i ragazzi delle famiglie cattoliche: pren­devo un libro che trattava temi della loro esperienza – la famiglia e la scuola, la bellezza, l’amicizia, l’amore… – e ne leggevamo insieme un capitolo ogni settimana, seduti sul marciapiede. E così condividevamo ciò che avevamo nel cuore».

L’esperienza ebbe successo: nuovi ragazzi si unirono al gruppo, non più solo cattolici, qualcuno aprì le porte di casa per gli incontri – «ma li facevamo sempre in veranda, dove tutti potessero vederci» -, i temi si allargarono al problema della droga e all’impegno sociale. «Una volta ho portato questi adolescenti, che vivono in mezzo alla delinquenza e non avevano mai messo piede fuori dal loro quartiere, a fare un giro nel centro di Belém: abbiamo mangiato una pizza e un gelato, abbiamo passeggiato… erano raggianti».
Piccoli sprazzi di fiducia e amicizia, spiragli minimi eppure capaci di insinuare un sassolino tra gli ingranaggi di un sistema opprimente, perché mostrare agli adolescenti un’alternativa alla loro vita significa togliere manodopera allo spaccio. «Sono consapevole che il mio impegno comporta dei rischi, eppure l’anno scorso, quando sono rientrata in Italia per le vacanze, ero convinta che sarei tornata presto in mezzo a quei giovani».
Invece la pandemia di Corona­virus, che ha colpito duramente il Brasile, sta tenendo suor Chiara ancora lontana dai suoi ragazzi. Ragazzi come Jean, quindici anni, mamma prostituta e papà morto ammazzato per questioni di droga. «Viveva con la nonna, squilibrata, e uno zio violento. A scuola nessun profitto, nessuna soddisfazione. Ma quando, nei nostri incontri, Jean parlava dell’amicizia, dell’amore, gli occhi gli brillavano». E la ex bambina ribelle, che alla fine ha trovato il senso della sua vita, a quella luce non può restare indifferente.