La Bolivia alla ricerca di un nuovo inizio

La Bolivia alla ricerca di un nuovo inizio

L’uscita di scena di Morales, le tensioni che continuano e la sfida di ricomporre le fratture che si sono generate nella società boliviana. Da La Paz la testimonianza di Lorenzo Marfisi, coordinatore delle attività del Vis nel Paese

 

Un Paese spaccato che rischia di scivolare sempre di più nella violenza. A cinque giorni ormai dalla fuga in Messico di Evo Morales resta caldissima la situazione in Bolivia.

La crisi è iniziata il 20 ottobre con le elezioni presidenziali, che hanno visto Morales ricandidarsi per un nuovo mandato – il quarto – nonostante in un referendum nel 2016 il Paese si fosse pronunciato contro questa possibilità. La sera stessa del voto le previsioni elettorali davano per scontato che ci sarebbe stato un ballottaggio tra Morales e lo sfidante Carlos Mesa, anche lui già presidente tra il 2003 e il 2005. Solo dopo una sospetta interruzione del flusso dei dati durata 23 ore Morales ha annunciato di aver superato di un solo punto percentuale la soglia prevista per il ballottaggio. Il tutto mentre l’Organizzazione degli Stati Americani parlava di «chiare manipolazioni». Sono così cominciate le proteste di piazza che domenica scorsa – dopo un estremo tentativo di Morales di convocare «nuove elezioni per pacificare il Paese» – hanno visto scendere in campo il capo dell’esercito, con una mossa che di fatto ha spinto il presidente alle dimissioni. Ora Morales si trova in Messico dove ha chiesto asilo politico denunciando di essere stato vittima di un golpe, mentre i suoi sostenitori contestano apertamente la presidente ad interim Jeanine Añez, l’ex vicepresidente del Senato designata nel frattempo come capo provvisorio dello Stato in vista di nuove elezioni da un Senato reso monco dal boicottaggio del partito legato a Morales.

Che cosa c’è alla radice di questo scontro così duro? E come lo sta vivendo chi nel Paese opera come cooperante? È quanto abbiamo chiesto a Lorenzo Marfisi, coordinatore locale per l’ong italiana Vis. «In Bolivia – spiega – collaboriamo con Unicef per monitorare centri di accoglienza per ragazzi che vivono in situazioni disagiate. I progetti principali sono due: il primo si occupa di reintegrazione familiare dei ragazzi che sono normalmente ospitati in questi centri, mentre il secondo riguarda l’inclusione educativa per ragazzi disabili e con difficoltà di apprendimento scolastico».

Che cosa sta succedendo allora in Bolivia? «La giornata di scontri più violenta – continua Marfisi – è stata quella del 6 novembre, quando la polizia faceva ancora capo a Morales. Ancora adesso però a La Paz si sentono gruppi affini al Movimento per il socialismo (il partito di Morales, ndr) gridare “Sì alla guerra civile”».

I due schieramenti che si fronteggiano sono chiari: da una parte i cocaleros (raccoglitori di coca) e i mineros (minatori) che appoggiano Morales e ne chiedono il ritorno e dall’altra le classi medio-urbane delle città. A livello geografico i cocaleros sostenitori di Morales si trovano soprattutto a est di Cochabamba (al centro del Paese), mentre i mineros si concentrano soprattutto a ovest. Tuttavia bisogna fare attenzione alle semplificazioni. Non tutti i cocaleros boliviani appoggiano l’ex presidente; al contrario, i raccoglitori di coca dello Yungas, una regione del dipartimento de La Paz, sono contro al Movimento per il socialismo, stessa cosa dicasi per una parte di minatori.

A Yapacanì, nel dipartimento di Santa Cruz dove sono presenti i salesiani si sono formate delle vere e proprie bande armate fuori legge, mentre sono stati feriti e arrestati anche degli stranieri, tra cui un argentino ex combattente delle Farc e due cubani che avevano con sé un’elevata quantità di denaro.

A seguito dei continui disordini l’intervento dell’esercito è stato visto con sollievo soprattutto dalla popolazione urbana, poiché proprio nelle città si sono verificati gli scontri più violenti e il paro civico, ovvero il blocco totale di tutti i servizi. Nella città di Santa Cruz de la Sierra il paro è durato per ben 21 giorni, terminando solo mercoledì.

Ma perché sono proprio le fasce della popolazione più disagiate dei cocaleros e dei mineros a chiedere il ritorno di Morales? «Certamente i cocaleros e i mineros sono settori indigeni che si troverebbero orfani di un’importante figura politica di riferimento – commenta Marfisi -. Morales è stato infatti il primo presidente di origine indio mai eletto in Bolivia, lui stesso ex raccoglitore di coca, una professione cui negli anni ha tentato di dare dignità».

I dati macroeconomici confermano l’impegno di Morales nei confronti delle fasce più indigenti della popolazione: secondo le stime più recenti in 13 anni e 9 mesi la povertà si è ridotta passando dal 35% al 15% e il Pil dal 2010 è cresciuto di una media del 4,3%. Molti sono anche stati i sussidi per la popolazione, da quello ai giovani studenti che completavano il corso di studi al bono sanitario che ha garantito un l’accesso alla sanità pubblica, a un bonus per gli anziani che non raggiungevano un certo livello di pensione minima. Successi che nemmeno l’opposizione può negare, collegati al potenziamento del settore estrattivo degli idrocarburi che ha aumentato le risorse pubbliche.

«Ma le classi medio-urbane erano sempre più preoccupate della pervasività dello Stato nella vita quotidiana dei boliviani, soprattutto in ambito giudiziario – continua ancora il cooperante italiano -. L’eccessivo ricorso alla forza, alla reclusione e la mancanza di una riforma giudiziaria non sono problemi indifferenti, soprattutto se pensiamo che il carcere di La Paz ospita più del 437% di persone rispetto alla capienza che dovrebbe avere. Per dirla in altri termini, un carcere che dovrebbe ospitare circa 800 persone ne ospita quasi 4000».

«Il vero terrore delle classi medio urbane è quello di fare la fine del Venezuela – conclude Marfisi -. La popolazione urbana è cosciente che il periodo delle vacche grasse sta finendo, con o senza Morales. E la presenza dei migranti venezuelani nel Paese ha messo in allerta le classi medie. E la Bolivia, nonostante la crescita economica, non è certo la Svizzera del Sudamerica».