Liberazione? Sì, dall’individualismo!

Liberazione? Sì, dall’individualismo!

Nuova tappa della teologia in America Latina. I temi di riflessione: l’accoglienza, la misericordia, l’ecologia integrale, i percorsi di solidarietà con i poveri. Parola del professor Carlos Castillo

 

Prete della diocesi di Lima ed allievo di Gustavo Gutiérrez, il prof. Carlos Castillo è un esperto di teologia dell’America Latina. Teologia che, oggi, si trova di fronte a una nuova tappa del processo di liberazione ancora più avvincente ed impegnativo. Con i giovani al centro.

Prof. Castillo, che orientamento sta prendendo oggi la riflessione teologica in America Latina?

«Le cose sono cambiate negli ultimi anni. Ma occorre vederle nel contesto storico dell’evangelizzazione del continente. Sin dalla colonizzazione spagnola nel Cinquecento emergono nella Chiesa due tendenze riguardo alla considerazione dei gruppi indigeni e popolari: quella della valorizzazione della loro identità culturale e spirituale, insieme al riconoscimento della loro situazione di oppressione e povertà; e quella della loro integrazione in un sistema di dominazione che fa della religione uno degli strumenti di assimilazione e sottomissione al nuovo ordine europeo. Bartolomé de Las Casas (1484-1566) diceva che gli indigeni già manifestavano apertamente capacità di amore e speranza. Mancava loro solo la fede. I gesuiti con le riduzioni cercavano di stabilire uno spazio di evangelizzazione anche geograficamente e politicamente indipendente dal progetto coloniale. Altre congregazioni e vescovi lavoravano nella stessa linea. Ma, a poco a poco, gran parte della Chiesa e della politica si muovono in sintonia con gli interessi coloniali e la religione tende a consolidare più che a mettere in discussione il sistema di potere e di interessi».

Che relazione ha tutto questo con il contesto attuale?

«Ce l’ha nel senso che il tentativo di auto-valorizzazione popolare riemerge in modo massiccio alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Ci giocano naturalmente, dall’interno della Chiesa, la riflessione conciliare che mette al centro l’idea di Chiesa come popolo di Dio, e dall’esterno una nuova sensibilità culturale per la giustizia sociale e la presa di coscienza dei popoli oppressi ed emarginati, che diventano soggetti attivi nelle loro storie. Nascono, ispirata da Gustavo Gutiérrez qui a Lima, ma anche da altre esperienze in America Latina, la teologia della liberazione e altre teologie simili, tutte a partire dal metodo “vedere-giudicare-agire”. Gruppi di laici di base (contadini, studenti, operai, pobladores dei nuovi quartieri nelle città) in vari Paesi dell’America Latina prendono coscienza del loro essere Chiesa. Alcuni preti che li seguono iniziano anch’essi a operare in modo tale da unire la fede con l’impegno sociale: la giustizia come prima forma di carità. Sono anni in cui agiscono anche parecchi movimenti di ispirazione marxista. Ma solo un’esigua minoranza di cristiani li segue. I gruppi ecclesiali solidarizzano col popolo oppresso, non con loro. Il cambio di passo che interviene nella Chiesa avrà la sua massima espressione nella Conferenza di Medellin (Colombia) nel 1968».

Si trattava di sganciarsi da un modello di Chiesa ereditato dalla colonizzazione quando questa era ormai da tempo alle spalle?

«Esatto. Si trattava di passare da una “Chiesa-riflesso” della Chiesa madre, europea e spagnola in particolare, a una “Chiesa-fonte” di qualcosa di proprio, come diceva Henrique de Lima Vaz. Ciò veniva identificato in grande parte nella carità politica. Naturalmente un diverso modo di vivere la fede, un diverso baricentro spirituale della persona e delle comunità, modificavano la percezione stessa della fede e delle sue espressioni concrete. Prima di quegli anni il “buon cristiano” è quello della Messa quotidiana, del rosario, delle processioni e delle devozioni, delle buone opere e dell’elemosina indipendentemente da ciò che di buono o di cattivo succede attorno a lui. Tutti noi siamo cresciuti così. Ma a un certo punto, e per tutti gli anni Settanta ed Ottanta, ciò che conta, dinanzi alla realtà che ci interpella, diventa l’impegno e l’opzione preferenziale per i più poveri. Non si tratta di un movimento di poco conto. Decine di parrocchie alla periferia di Lima, per esempio, in quegli anni vengono fondate in questa ottica. È l’epoca in cui si rovescia il rapporto demografico tra città e campagna con l’80% della nostra popolazione in Perù oggi urbanizzata».

La religiosità popolare tradizionale però sopravvive…

«In gran parte sì. Avendo lavorato in parrocchia per molti anni, ho potuto osservarla e cercare di capirla bene. Tradizionalmente ha avuto una forza pedagogica e liberante molto consistente. I santi come modelli e protettori hanno aiutato l’animo indigeno a fare il passaggio dalle forze naturali e dagli spiriti della natura ai nuovi paradigmi cristiani. L’associazionismo religioso delle confraternite ha garantito spazi di indipendenza, identificazione, aggregazione sociale sostanzialmente liberi come rielaborazione delle dinamiche indigene spazzate via dall’occupazione spagnola e dall’instaurazione di un nuovo tipo di organizzazione sociale e politica. Per evitare che le devozioni non si traducano oggi in una forma di alienazione dobbiamo aiutare la gente a capire cosa esse veramente significano in un nuovo contesto. Qual è stata la vita di un santo e qual è stato il suo impegno per Dio e per il popolo? Che cosa hanno significato e cosa significano oggi concretamente la spada, il fiore, la corona, le luci? Come possono questi segni e messaggi cambiare in meglio la nostra vita, il nostro cuore, i nostri rapporti sociali? Cosa dicono a fenomeni come la corruzione politica o la violenza domestica? Personalmente metto sempre in relazione la pietà popolare alla figura e all’insegnamento di Cristo: in senso profetico (come nel caso di san Michele Arcangelo, una figura che nella Bibbia precede Gesù Cristo) o di attuazione esemplare, perché i santi sono coloro che hanno trovato la loro ispirazione in Cristo e per Lui sono vissuti e sono morti».

Oggi però il clima sociale in America Latina è molto cambiato. Ovunque c’è democrazia. Di quale liberazione c’è bisogno?

«Direi che ci sono elezioni. Non so se c’è democrazia piena. Va ancora cercata e approfondita. In ogni caso ciò che più ci preoccupa è l’enorme livello di corruzione praticamente in tutti i Paesi, sia con governi di destra che di sinistra. In Perù, poi, abbiamo scoperto che con la decentralizzazione amministrativa si stanno sviluppando potenti mafie locali. E i sondaggi danno per ora come vincente alle elezioni del prossimo anno la figlia dell’ex dittatore Alberto Fujimori, al potere dal 1990 al 2000. Ma più che il clima sociale è il clima culturale che è enormemente cambiato a partire dal 1990 circa. E anche come Chiesa ci impedisce di pensarci ormai come nei decenni precedenti».

In che senso?

«La globalizzazione, il consumismo e la comunicazione moderna hanno inaugurato un’epoca di individualismo e di isolamento delle persone, perfino di scarto in mezzo all’esclusione e alla povertà. Basta vedere le grandi periferie urbane, ma anche l’occupazione di terre da parte delle multinazionali dell’agro-industriale in Brasile. La teologia dell’America Latina deve confrontarsi con questa nuova situazione e lavorare soprattutto con i giovani. La irrevocabile opzione preferenziale per i poveri, totalmente attuale, adesso bisogna che si concentri sul settore dei giovani. Vengono distrutti da fenomeni colossali di sfruttamento economico come il commercio di droga, la privazione della terra, la carenza di spazi abitabili e di possibilità di istruzione e di vita familiare, provocando il crollo della speranza per la maggioranza povera».

Si notano molte “ferite” sociali e personali in America Latina…

«Certamente. La teologia e la pastorale oggi devono accompagnare l’individuo ferito in una situazione di pluralità. Devono rigenerarlo come soggetto creatore di presente e di futuro, sviluppando le sue capacità “generative”, aiutando le persone a essere non individui che si liberano di tutto gonfiandosi di se stessi, ma arrivando a personalità generative e responsabili, come dice anche il sociologo Mauro Magatti in Italia. I cammini devono essere differenziati e con atteggiamenti flessibili e misericordiosi, più che con delle norme morali e le dottrine; sapendo “essere più attenti alle persone, con la loro conflittualità e il loro disordine, che non all’ordine delle cose”, come dice Gutiérrez. Insieme alla singola persona occorre accompagnare la diversità. La comunicazione efficace e l’empatia con le persone e le situazioni diventano essenziali. La spiritualità non può essere soltanto un’esperienza consolatoria personale o di gruppo, come avviene spesso tra i pentecostali, ma deve trasformare le situazioni e i rapporti sociali. In questo senso la nuova tappa della teologia dell’America Latina si ricollega alla prima degli anni Settanta. I temi di riflessione diventano l’accoglienza, la misericordia, l’ecologia integrale, i percorsi di solidarietà con i poveri come dice il documento di Aparecida del 2007».

Cambia anche il modello di Chiesa?

«All’individualismo dominante va sostituita l’individualità generatrice di vita, feconda e non sterile. Il livello umano della liberazione, proposto da Gutiérrez, oggi diventa più urgente. La situazione culturale e sociale è diversa da quella degli anni Settanta e del sorgere della tanto discussa e imprescindibile teologia della liberazione. Ma la necessità di una fede che libera e rigenera la realtà umana rimane la stessa. La sfida della diversità di esperienze porterà ancora a forme teologiche diversificate, assistite dalla stessa spiritualità, e ci aiuterà a costruire più una Chiesa “casa-ospedale da campo” (come dice Papa Francesco) che una Chiesa “cattedrale”. È quello il futuro di Chiesa che ci attende in America Latina, più vicina al Regno come progetto accogliente e aperto, che come sistema chiuso e formale, dove i poveri, specialmente i giovani, possano guarire le loro ferite, e diventare soggetti umani e storici di vita feconda. Ecco il compito delle teologie e dei teologi. Anche in questo, Francesco apre un orizzonte ampio che rilancia la ricerca teologica latinoamericana in diverse direzioni, ma con lo stesso spirito della scelta preferenziale per i poveri»