«Io non volevo andare in Brasile»

«Io non volevo andare in Brasile»

Nel giorno in cui Papa Francesco conclude ufficialmente il Sinodo per l’Amazzonia la testimonianza di Raffaele Zoni, che accogliendo l’invito di mons. Aristide Pirovano – grande missionario del Pime e vescovo a Macapà – ha vissuto per alcuni anni insieme agli indios in un incontro che gli ha cambiato la vita: «La loro sofferenza – spiega – oggi non può e non deve lasciarci indifferenti»

 

Si chiude oggi a Roma il Sinodo per l’Amazzonia voluto da papa Francesco e che il Pime ha preparato e accompagnato in questi mesi attraverso la campagna «Il grido dell’Amazzonia». In questo percorso abbiamo cercato soprattutto di raccontare le storie di chi ha visto la propria vita cambiare mettendosi in ascolto di questo angolo del mondo alla luce del Vangelo di Gesù. Ed è quanto racconta anche questa testimonianza di Raffaele Zoni, partito volontario per l’Amazzonia con mons. Aristide Pirovano, grande missionario del Pime e vescovo a Macapà. Raffaele ha accompagnato il nostro cammino quest’anno mettendo a disposizione una bellissima collezione di oggetti donatigli dagli indios e che lui presenta sempre portando chi osserva a entrare nella ricchezza delle loro culture, vittime di così tanti pregiudizi e invece così profonde nell’indicarci tante nostre contraddizioni. La sua mostra è attualmente allestita a Milano presso lo spazio delle esposizioni temporanee del Museo Popoli e Culture del Centro missionario Pime e resterà aperta fino al 2 novembre come un modo per provare davvero a vivere quanto il Papa ci ha suggerito con questo Sinodo.  

 

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Mi sono affezionato alla vita sin da piccolo, ovvero sin da quando mio nonno mi teneva in braccio, indicandomi le cime degli alberi. Entrambi restavamo muti, in attesa che dai rami si espandesse un suono ritmico, magico e ipnotico.
Era il canto di mille uccellini e il nonno sorrideva orgoglioso, sicuro di avermi conquistato.
Il nonno non sapeva, in quei teneri momenti, di quanto quel suo gesto avrebbe inciso nella mia vita.
Da adulto, ricolmo di motivazioni, avrei infatti raggiunto il Brasile e percorso i fiumi dell’Amazzonia. Avrei alzato ancora una volta il capo, felice d’incrociare il volo planato di uccelli variegati, ora confusi tra i giganteschi rami della foresta pluviale.

Ma a dire il vero, in Amazzonia non vi sono arrivato per il solo amore della selva, anzi, in quella regione non dovevo arrivarci affatto.
Andiamo però con ordine. Ho raccontato subito la mia affezione alla vita e, come ben si sa, quanti amano la vita non sopportano l’idea di gioire da soli: le cose sono belle quando condivise, altrimenti diventano sterili.
E così, il piccolo bimbo che si stupiva nell’ascoltare il canto degli uccellini, cominciò a non sopportare il fatto che altri bimbi, nel mondo, non potessero gioire, perché affranti dall’indigenza e dalle malattie.
Questo cruccio divenne una vera e propria inquietudine, al punto che con il passare degli anni, decisi di svolgere volontariato in qualche remota regione dell’Africa. Reputai questa scelta idonea ai miei desideri e cominciai a scriverlo a suore e missionari di ogni congregazione.

Devo ammettere che la risposta fu deludente, anzi, non ci fu affatto: nessun missionario mi rispose (ancora oggi spero che fu solo per disguidi postali).
Parlai di questa mia esperienza negativa con una conoscente e lei mi propose di scrivere ad un vescovo in Amazzonia, ma la mia risposta fu perentoria: «Mi spiace, ma io non voglio andare in Amazzonia, né tanto meno in Brasile. Io voglio andare in Africa».
Passò ancora molto tempo, prima che mi arrendessi all’evidenza e, seppur riluttante, decidessi di scrivere al missionario suggerito da quella signora.

Le circostanze superano spesso le nostre aspettative e gli accadimenti modificano l’approccio alla realtà. In questo caso fu una lettera inattesa, a rompere ogni mio equilibrio.
Quella lettera recitava più o meno così: «Caro Raffaele, non so bene che cosa potresti fare qui da noi, ma mi piace molto il tuo entusiasmo, per cui ti propongo di venirci a trovare, così ne parleremo di persona. Firmato: vescovo Aristide Pirovano, missionario del Pime, parroco presso il lebbrosario di Marituba, Brasile».

Dopo alcuni decenni, posso affermare che quella lettera ha modificato radicalmente l’intera mia vita. In sequenza, passai due anni nel lebbrosario e altri con gli indios, l’ultimo dei quali sotto la minaccia di morte dei fazendeiros, irritati per il mio impegno in favore degli indigeni e della foresta amazzonica.
Nel frattempo mi sposai con Conceiçao, con la quale condivido la gioia di questa esistenza, accanto a nostra figlia Maira Chiara, nome composto da una parola Tupì Guaranì e da quello della santa di Assisi.
«Escludere il caso dalla propria vita» è la parola d’ordine che mi sono posto, accogliendo il quotidiano senza arroganza ma con costanti aspettative.

Di quegli anni in Brasile, ho un ricordo intenso. Mi rammento il profumo avvolgente della foresta, lo sguardo amicale degli indios, la tenerezza con la quale il vescovo e gli altri missionari assecondavano le mie utopie. Ho evidente, soprattutto, lo stupore difronte alla forza degli elementi, perché l’Amazzonia racchiude un segreto intrinseco: per il credente è infinita teofania, per gli altri è dimostrazione della potenza del “bios”.
Il comportamento irriguardoso di coloro che devastano la selva, contrasta con le armoniose sinergie della fauna e della flora e lascia totalmente annichiliti .
Come non capire che la foresta vale per ciò che è, per l’infinito patrimonio biologico che racchiude e non per le avvilenti ragioni che portano alla sua devastazione?

L’Amazzonia non è solo un “polmone per il mondo”, è anche il suo refrigeratore. Se in questa regione vi fosse il deserto, l’intero pianeta sarebbe più secco e con una temperatura media più alta. Inoltre, perderemmo la più grande riserva d’acqua dolce esistente: il solo rio delle Amazzoni, la cui foce è larga 400 chilometri, trasporta centocinquantamila metri cubi d’acqua al secondo, ovvero trecento volte la portata del nostro fiume Po.
I dati a disposizione della scienza sono inequivocabili e confermano che l’umanità ha estremo bisogno di questa foresta pluviale.
Ma dal mio punto di vista questa non è la cosa mi importante.

Come credente, non posso sottovalutare il gesto d’amore che l’Assoluto ha compiuto nel donarci questo pianeta e per la stessa ragione, non posso che interpretare la sua devastazione come un atto di ingiuria nei confronti di Dio e della Vita stessa.
In Amazzonia esiste un popolo che manifesta costantemente il suo rispetto per la “casa comune” ed è anch’esso sottoposto alle ingiurie di una cultura arida e irriverente.
Gli indios stanno soffrendo per ciò che avviene e rischiano l’estinzione. Ciò non può e non deve lasciare indifferenti.

Ho vissuto con loro e ne conosco la grandezza.
L’universo culturale degli indiani del Brasile è incentrato sul connubio uomo-natura.
Questa unione trova vigore nell’esperienza della vita quotidiana. La foresta è un rispettato interlocutore con cui l’indio dialoga incessantemente. Con discrezione e profondo rispetto egli si muove nella selva, attingendone le risorse in modo oculato. Le conoscenze acquisite nel tempo gli permettono di usufruire di beni preziosi, senza alterare l’habitat.
Per tutti valga il caso degli indios Waiampì, i cui cacciatori, seguendo il volo di una grande farfalla azzurra (Morpho sp.), localizzano alcune loro prede. Sanno infatti che l’insetto si nutre del nettare del fiore di una pianta, i cui semi sono parte integrante della dieta alimentare di un prelibato mammifero, l’Agouti. L’animale verrà cacciato, ma non in maniera sconsiderata.

Tra gli indios un mito racconta che, quando un uomo muore, la sua anima trasmigrerà in un animale di grosse dimensioni. Successivamente lo spirito si sposterà in specie sempre più piccole, sino ad essere ospitato nel corpo di una formica. Il minuscolo insetto si introdurrà nella cavità di un mastodontico albero e finalmente l’anima troverà la sua quiete (mito Bakairì).
Oggi invece la foresta viene costantemente devastata e incenerita e le formiche non trovano più riparo nei meravigliosi tronchi. Dove mai finirà, dunque, l’anima dei defunti?
Oggi l’indio ha nostalgia di futuro e ce ne chiede ragione.

 

Raffaele Zoni
equo.dipiu@libero.it