Perù, una democrazia in terapia intensiva

Perù, una democrazia in terapia intensiva

Un presidente costretto dal parlamento a dimettersi, manifestazioni di piazza con la morte di due persone che hanno spazzato via in poche ore il successore e ora un nuovo presidente ad interim. Il tutto nel Paese dell’America Latina più colpito dal Cronavirus. Perché il Perù sta vivendo una crisi politica tanto grave? L’opinione di un intellettuale cattolico peruviano: «Mai voltato davvero pagina dopo gli anni di Fujimori»

 

Ieri sera il Perù ha designato il suo terzo presidente in una settimana: il Congresso ha eletto come capo dello Stato ad interim il deputato Francisco Sagasti, che porterà il Paese alle elezioni generali del 2021. È l’ultimo atto della crisi politica scatenata il 9 novembre dal precedente voto che aveva rimosso il presidente Martin Vizcarra (lui stesso succeduto nel 2018 a Pedro Pablo Kuczynski di cui era vice-presidente) insediando alla guida del Paese il presidente del Congresso, Manuel Merino. Un colpo di mano che le proteste popolari – con due persone uccise negli scontri con la polizia – hanno spazzato via in poche ore, sullo sfondo di un Paese che è stato tra i più colpiti dal Coronavirus e solo nelle ultime settimane ha visto un calo significativo dei contagi. In questo intreccio di voti, dimissioni e colpi di scena, perché la democrazia peruviana continua rivelarsi così fragile? L’abbiamo chiesto al professor Wilfredo Ardito Vega, docente di diritto alla Pontificia Università Cattolica del Perù.

 

A gennaio, quando in Perù si sono svolte le ultime elezioni parlamentari, l’atmosfera di indifferenza era talmente grande che molti giovani, addirittura studenti universitari, hanno scelto di votare per un gruppo che aveva un pesciolino come proprio simbolo e sembrava carino. Cosí il Frepap, un gruppo di fondamentalisti religiosi che indossano abiti che sembrano usciti dall’Antico Testamento, ha ottenuto ben 15 deputati sui 180 del parlamento del Perù.

L’elezione del Frepap come uno dei gruppi parlamentari più consistenti nell’attuale Congresso è uno dei simboli più chiari della crisi di una democrazia con tante forme esteriori, ma vuota di senso, dove gli elettori e gli eletti mostrano una grande irresponsabilità.

Non è sempre stato così in Perù. Fino agli anni Ottanta il nostro era un Paese dalle forti organizzazioni sociali. Contadini, indios, lavoratori cercavano di migliorare la propria condizione; molti sacerdoti, suore e vescovi legati alla Teologia della Liberazione partecipavano con il popolo alle proteste e alle manifestazioni. Naturalmente c’erano partiti di sinistra e partiti di destra. Questi ultimi rappresentavano gli interessi della minoranza che controllava il potere politico ed economico in una società segnata profondamente dalle diseguaglianze.

Ma sono stati gli anni Novanta a vedere la società peruviana attraversata da parecchi fenomeni che l’hanno trasformata totalmente. Il primo – il più letale – sono state le attività del gruppo maoista Sendero Luminoso, che voleva prendere il potere con azioni terroriste. Da una parte i senderisti attirarono persone scontente per la situazione sociale, indebolendo così le organizzazioni popolari di sinistra. I senderisti non volevano convincere: minacciavano. Era pericoloso essere un leader dei contadini o del sindacato, perché chi non la pensava come loro veniva assassinato.

Allo stesso tempo, durante i governi di Belaúnde (1980-1985) e García (1985-1990), anche le forze dello Stato uccisero molti leader sociali perché sospettati di essere senderisti. Quando poi nel 1990 arrivò al potere Alberto Fujimori e dopo due anni liquidò il Congresso, suscitando l’attenzione della comunità internazionale, per i «possibili terroristi» si aprirono le porte della prigione… e vi finirono anche molte persone innocenti.

A quel tempo partecipare a organizzazioni sociali, protestare, avere un impegno politico diventò un’attività molto rischiosa. Molti pensarono che l’unica maniera di sopravvivere fosse mostrare una totale indifferenza verso i problemi sociali. Molti genitori insegnavano i figli a non avere alcun interesse verso la politica per proteggerli.

Fujimori non chiuse solo il Congresso; intervenne anche sulla Corte Suprema e sul Tribunale Costituzionale. Concentrando su di sé tutto il potere, stabilì un regime neoliberista, cambiando la Costituzione per cancellare i diritti sociali e favorire i grandi investimenti di imprese minerarie e petrolifere. Molte aziende usarono le nuove facoltà concesse dalla legge per licenziare i lavoratori, specialmente quelli che appartenevano a sindacati. Va riconosciuto, però, che in quegli anni le attività economiche crebbero di maniera molto visibile e una parte della popolazione migliorò sensibilmente il suo livello di vita.

Per evitare i conflitti con i contadini e i poveri delle città il governo Fujimori creò un’organizzazione sociale parallela, controllata dallo Stato che consegnava cibo, vestiti, borse di generi di prima necessità. Così, a poco a poco, milioni di persone caddero in una dipendenza economica di tipo clientelare dal governo

In questo modo una persona povera che voleva migliorare la propria vita doveva essere leale al governo; l’idea di partecipare a un’organizzazione politica non aveva più senso. La società peruviana diventò così molto individualista. Fujimori utilizzò anche altri due importanti meccanismi per controllare la società: da una parte i media, specialmente con i talk show; dall’altra la religione, con il suo grande alleato Juan Luis Cipriani, arcivescovo di Lima. Cipriani ha sostenuto tutte le principali proposte di Fujimori, compresa l’inclusione della pena di morte nella Costituzione.

In questo contesto i veri problemi del Perù – la salute e l’istruzione pubblica, per esempio – rimanevano nelle stesse deplorevoli condizioni, ma non se ne parlava. Non si parlava di quanti peruviani lavoravano senza nessun diritto nell’economia informale, né di quanti vedevano la loro salute minata dall’inquinamento provocato dalle attività minerarie.

Nel 2000 – alla fine – Fujimori perse il potere e dovette fuggire perché contro di lui era montato un forte rifiuto; si trattava di un rifiuto morale (contro la corruzione) e politico (contro l’autoritarismo del governo e il suo tentativo di rimanere al potere). Le critiche al modello economico, invece, restavano molto deboli. Due mesi dopo la fuga di Fujimori, Cipriani venne nominato cardinale e continuò a diffondere un messaggio di rassegnazione per i più poveri.

A vent’anni dalla fuga di Fujimori, la società peruviana resta ancora molto fujimorista. La salute, l’educazione e i trasporti pubblici sono a livelli disastrosi: tutti quelli che possono cercano di pagare un servizio privato.

Molti partiti non sono diversi dal fujimorismo: hanno uno o due capi che sembrano boss, con le loro reti di potere economico, vogliono servirsi del potere politico per proteggere i propri affari. Non ci sono partiti solidi con una ideologia chiara come in Cile, in Bolivia o in Argentina. E non essendoci una vera critica al sistema economico, la maniera più rapida di avere popolarità è elargire benefici specifici (come le clientele di Fujimori) o un discorso populista e autoritario. Ed è una confusione che comprende gli stessi partiti di sinistra, dove vi sono anche posizioni a favore della pena di morte, omofobia, xenofobia (contro gli immigrati dal Venezuela) o antisemitismo.

Dentro questo panorama così deludente, non sorprende più di tanto che un gruppo di studenti, stufi di tanti ambiziosi boss, abbiano preferito nelle urne il simbolo di un pesciolino che sembra meno cattivo semplicemente perché meno conosciuto.

Nelle elezioni del 2016 erano due i candidati al ballottaggio: Keiko Fujimori, la figlia del dittatore, adesso in prigione, e Pedro Pablo Kuczyinski, anziano uomo di affari. Tutti i due avevano la stessa visione sull’economia e lo Stato; la differenza era che a favore di Keiko pesavano i nuovi protagonisti della politica latinoamericana: gli evangelici conservatori e anche molti gruppi di interesse economico. Kuczynski vinse per pochissimi voti, ma Keiko e i fujimoristi iniziarono un lavoro costante per destabilizzare il governo, prima per votare la messa in stato d’accusa di Kuczynski e, dopo la sua rinuncia, contro Martín Vizcarra il vicepresidente.

Nel 2019 Vizcarra ha sciolto il Congresso e indetto elezioni parlamentari; ma la maggior parte dei nuovi deputati, che non erano fujimoristi, non erano molto diversi dai predecessori. Così quando il Perù è stato colpito dalla pandemia da coronavirus e migliaia di peruviani sono morti per mancanza di letti o di ossigeno nei poveri ospedali, i parlamentari hanno cercato di licenziare Vizcarra. Alla fine sono riusciti a farlo lunedí scorso e Manuel Merino, il presidente del Congresso è stato nominato presidente del Perù.

Né Merino, né i congressisti, né molti peruviani pensavano che sarebbero scoppiate proteste di piazza dappertutto e che – dopo l’uccisione di due giovani da parte della polizia – Merino sarebbe stato costretto a rinunciare. Così ieri si è arrivati all’elezione di Francisco Sagasti come nuovo presidente ad interim, che dovrà portare il Paese alle elezioni generali nell’aprile 2021. Sagasti è uno dei deputati che la settimana scorsa avevano votato contro l’impeachment di Vizcarra e ha promesso che rinuncerà alla candidatura nelle prossime elezioni.

Nel luglio 2021 il Perù celebrerà i 200 anni della sua indipendenza. Verrà finalmente anche il tempo in cui il Paese potrà ritrovare una classe politica in grado di affrontare i suoi problemi con serietà?

 

Foto: Flickr / Samantha Hare