Ostelli in Bangladesh, una casa per gli studenti

Ostelli in Bangladesh, una casa per gli studenti

I missionari del Pime, che hanno fondato le due diocesi di Dinajpur e Rajshahi, operano nelle parrocchie delle aree rurali offrendo sostegno ai giovani delle comunità tribali

L’Istruzione come possibilità di riscatto dall’emarginazione sociale e dalla povertà. È questa l’idea alla quale si sono fin dal principio ispirati i missionari del Pime arrivati per la prima volta in Bangladesh nel 1855. Oggi, i sacerdoti dell’Istituto gestiscono una serie di ostelli per bambini e ragazzi appartenenti alle minoranze religiose ed etniche, sparsi tra le comunità rurali delle diocesi di Dinajpur e Rajshahi, entrambe fondate dal Pime e ora amministrate dalla Chiesa locale. Gli ostelli sono strutture in cui i giovani risiedono per potersi concentrare negli studi e dare una svolta alla loro vita. Le scuole governative del Bangladesh, infatti, sono molto scadenti e i bambini appartenenti ai gruppi tribali (soprattutto oraon e santal ma anche mahali, mandi o garo) non sono madrelingua bengalese e a volte hanno più difficoltà. In molti casi i genitori sono analfabeti, lavorano nei campi come contadini o alla giornata, facendo la guardia notturna o vendendo verdure.

«Una missione senza ostello è morta», racconta padre Carlo Buzzi, in Bangladesh dal 1975 dopo essere stato per qualche anno prete diocesano. Oggi è sacerdote della parrocchia Ave Maria di Gulta, nella diocesi di Rajshahi, in cui, oltre ai dormitori per i bambini, ci sono anche una chiesa e un dispensario. «In Italia mi sembrava di perdere tempo, volevo andare dove c’era davvero bisogno, e un tempo il Bangladesh, dopo aver proclamato l’indipendenza nel 1971, era il Paese più povero del mondo». Nella missione di Gulta sono ospitati 50 ragazzi e ragazze, che frequentano la scuola pubblica locale. «Al pomeriggio sono seguiti nello studio e i genitori sanno che qui i figli possono ottenere un’istruzione di qualità. Alcuni provengono anche da 200 chilometri di distanza». I bambini sono tutti cristiani e indù per fare in modo che, in un Paese a stragrande maggioranza musulmana, anche le minoranze abbiano la possibilità di emanciparsi.

Alcune missioni del Pime ospitano anche una scuola, come nel caso della parrocchia di Chandpukur, affidata a padre Ciro Montoya Belisario, sacerdote colombiano associato all’Istituto. «I ragazzi degli ostelli sono per scelta tutti indù e cristiani, ma le lezioni sono frequentate anche da bambini musulmani». Gli insegnanti chiedono fondi per la realizzazione di libri di testo nelle lingue natie dei tribali: «Per ovviare al problema abbiamo deciso di tenere le lezioni in lingue diverse: un giorno in inglese, un giorno in bengalese e gli altri negli idiomi indigeni», commenta il sacerdote.

Altri missionari hanno invece puntato sullo sport: da buon brasiliano, padre Almir Azevedo, originario dello Stato di Maranhao, ha coperto con la terra un campo di riso della missione di Mo­ehshpur, parte della diocesi settentrionale di Dinajpur, per trasformarlo in un campo da calcio: «Lo sport aiuta a crescere. I ragazzi qui non hanno altri mezzi o divertimenti». E chissà, magari qualcuno potrebbe addirittura avvicinarsi al professionismo. Ma non mancano le competizioni più “tradizionali”: «Ogni anno a giugno organizziamo anche un torneo di tiro con l’arco per maschi e femmine, perché i santal in passato cacciavano con arco e frecce».

Alcune parrocchie gestite dai missionari hanno anche un importante valore storico per i cristiani: nella comunità di Nobai Bottola, dove vive padre Arturo Speziale, 83 anni, ogni anno il 16 gennaio si svolge un pellegrinaggio in onore della Madonna. I cristiani del posto le sono particolarmente devoti perché nel 1971, durante la guerra di liberazione, i fedeli che si erano rifugiati nella chiesa furono risparmiati dall’esercito pakistano. Nella parrocchia, che si trova al confine con l’India, è ancora presente la statua originaria. «Si pregava con sentimento e paura, ognuno a modo suo. Spesso i soldati, temendo che anche i civili fossero combattenti, facevano piazza pulita», prosegue il missionario, che, dopo aver studiato l’induismo per quattro anni in India, è arrivato in Bangladesh nel 1972. «C’era tanta miseria al tempo. I ragazzini, per guadagnare qualcosa, davano la caccia ai ratti. Un topo grosso, oppure 4 o 5 piccoli valevano due taka», oggi pari a circa 20 centesimi di euro.

Nonostante una presenza centenaria, i missionari del Pime in Bangla­desh hanno sempre nuove sfide da affrontare. Padre Paolo Ballan, parroco a Suihari, spiega che la missione, quando era nata, si trovava in un’area rurale. «Mentre ora Suihari è una periferia della città di Dinajpur, che conta 100 mila abitanti. Oggi bisogna prendersi cura di una realtà cittadina, le necessità sono diverse e abbiamo in progetto di cambiare la struttura della missione per intercettare queste nuove esigenze. Molti ragazzi di etnie diverse ora entrano in contatto tra di loro, e c’è bisogno di fare lavoro di integrazione», spiega il missionario.

Negli ostelli della parrocchia sono ospitati 94 ragazzi e 61 bambine. «Avremmo potuto accogliere più studenti, ma abbiamo preferito puntare sulla qualità. La retta che chiediamo alle famiglie copre meno della metà della spesa necessaria per ogni ospite degli ostelli – continua il sacerdote – mentre il sostegno a distanza permette di pagare anche lo stipendio degli insegnanti che si occupano del doposcuola». La struttura delle missioni del Pime è stata poi replicata da tutte le parrocchie del Bangladesh, precisa padre Ballan. «Se in alcune aree di Dhaka gli ostelli oggi possono sembrare superflui, nelle aree tribali si dimostrano ancora fondamentali».