Filippine in stato d’emergenza dopo l’attentato a Davao

Filippine in stato d’emergenza dopo l’attentato a Davao

È caccia ai responsabili dell’attentato dinamitardo che venerdì 2 settembre ha provocato 14 morti e 67 feriti nella grande città meridionale filippina di Davao.

Da questo pomeriggio è decretato lo stato di illegalità” in tutte le Filippine dopo l’attentato di venerdì scorso, che ha provocato 14 vittime e 67 feriti nella città di Davao, la seconda per importanza nel Paese. Un attacco indiscriminato, tra la gente che affollava il popolare mercato notturno di Roxas Avenue, vicino a un noto albergo della città. Ancora più noto perché abitualmente frequentato per occasioni conviviali e politiche dall’ex sindaco della città, Rodrigo Duterte, dal 30 giugno sedicesimo presidente delle Filippine.

La polizia sta cercando due uomini e una donna come indiziati e un’altra persona vista a colloquio con uno dei tre. Dagli interrogatori dei testimoni è emersa la possibilità che vi possano essere altri individui coinvolti.

Al momento le ipotesi sulle responsabilità portano al gruppo militante Abu Sayyaf, attivo da lungo tempo tra i molti che si propongono come campioni della causa indipendentista per le comunità musulmane locali, ma che – almeno nel caso di Abu Sayyaf – da un lato proclamano la propria adesione a ideali jihadisti come quello di Al Qaeda prima e dell’autoproclamato Stato islamico ora; dall’altro sono dediti a sequestri di persona, estorsioni e violenze per autofinanziarsi. Da tempo le forze armate filippine hanno accentuato la pressione contro le roccaforti del gruppo sulle isole di Basilan e di Jolo, soprattutto, ma a spingere il gruppo a lanciare una sfida letale potrebbe essere stata la volontà espressa dal presidente di chiudere definitivamente la partita con esso e mettere fine a un conflitto di bassa intensità che nel Sud dell’arcipelago ha provocato forse 120mila vittime in oltre quarant’anni, oltre a milioni di profughi.

L’intento potrebbe però anche essere altro. Il Partito comunista delle Filippine, che ha firmato nei giorni scorsi l’accordo di pace con il governo, ha accusato gli Stati Uniti, tradizionale alleato delle Filippine, di essere dietro l’attentato. Rodrigo Duterte, che ha vinto le sue elezioni con una maggioranza senza compromessi basando la campagna elettorale sulla lotta alla criminalità e alla violenza di strada con metodi giustizialisti che hanno fatto finora 2.000 morti dalla sua entrata in carica, in maggioranza uccisi in scontri con la polizia, ma molti anche vittime di esecuzioni extragiudiziali. Un numero immenso di individui, che va avvicinandosi al milione si è autodenunciato per consumo di stupefacenti e speso rilasciato dopo brevi periodi di detenzione in carceri sovraffollate ben oltre ogni tolleranza. Un situazione che ha accentuato i rischi di reazione della criminalità, ma anche di avversari politici che temono che obiettivo finale di Duterte possa essere l’imposizione di una dittatura che ha come modello nemmeno tanto lontano quella di Ferdinand Marcos, che impose e gestì la legge marziale nel paese tra il 1972 e il 1981

A confermare a società civile e politica moderata il rischio di una deriva in questo senso è stata la reazione del presidente, colpito nell’orgoglio e nella credibilità da un evento terroristico avvenuto nella città di cui è oggi sindaco la figlia Sara, ma cui lui stesso è stato primo cittadino per 22 anni prima di candidarsi alla massima carica del paese e che aveva trasformato – ancora una volta con metodi non solo sbrigativi ma in molti casi indiscriminati e definitivi sovente denunciati e contrastati anche da esponenti della Chiesa cattolica – un modello di sicurezza e legalità.

Duterte, che al momento dell’attentato si trovava nella sua residenza di Davao dove ha trascorso peraltro la maggior parte del tempo dalle elezioni, anche successivamente all’ingresso in carica, ha deciso la dichiarazione dello “stato di illegalità”, per consentire ai militari di assistere la polizia nelle indagini e nelle eventuali operazioni per catturare i colpevoli. Il presidente ha smentito i volere imporre la legge marziale, ma ha anche ribadito che prenderà tutti i provvedimenti che dovessero essere necessari per garantire la sicurezza ai filippini.

Il capo della polizia ha sottolineato come l’ordigno esplosivo – una bomba di mortaio dotata di un detonatore attivato a distanza, fosse simile a quelli utilizzati in varie circostanze da Abdul Manap Mentang, militante colpevole anche di attentati letali, più volte arrestato e rilasciato, attualmente alla macchia. L’insistenza delle autorità a indicare la pista islamista, ha portato però i notabili musulmani locali a chiedere chiarezza sulle indagini e sulle motivazioni e estensione del provvedimento straordinario deciso da Duterte.