Bangladesh, gli stupri e la pena di morte

Bangladesh, gli stupri e la pena di morte

Di fronte al dilagare delle violenze sessuali il governo di Dacca ha scelto la via più immediata e d’effetto, ricorrendo alla pena capitale. Ma i dati dicono che solo dei 3,6% delle denunce finiscono con un processo. E si teme che la minaccia dell’esecuzione ora metta ancora più a rischio a vita delle vittime

 

L’approvazione in Bangladesh il 12 ottobre dell’emendamento alla legge che dovrebbe tutelare le donne e i bambini da atti criminali, introducendo la possibilità della pena di morte per i responsabili di violenza sessuale, ha sollevato molti consensi nel Paese. Non a caso a sollecitare il provvedimento erano state manifestazioni di piazza per l’ondata di sdegno che negli ultimi mesi ha attraversato media e social network per una serie di stupri che ha scioccato l’opinione pubblica. Anche la pressione internazionale aveva sollecitato un intervento e il governo di Dacca è sembrato scegliere la via più immediata e d’effetto.

Tuttavia, l’approvazione – accompagnata anche da un inasprimento delle pene detentive – ha avviato un acceso dibattito sulla reale utilità della pena capitale nel fermare le violenze sessuali che troppo spesso sono rese possibili da una estesa impunità.

Significativo come, secondo lo One Stop Crisis Center, organizzazione locale impegnata nella difesa delle donne dalla violenza, soltanto il 3,6% dei casi registrati in base alla legge di tutela sono arrivati a un giudizio e solo lo 0,37%  si è concluso con una sentenza di condanna. Una situazione che rende ovviamente poco credibile l’azione giudiziaria e che contribuisce a spiegare l’incremento dei casi di stupro: 975 tra gennaio e settembre (di cui ben 208 di gruppo) quelli documentati dall’organizzazione Ain-O-Salish Kendra. Erano stati complessivamente 1.413 nel 2019, circa il doppio dell’anno precedente.

Il dibattito non ha arrestato le prime esecuzioni, avvenute il 14 ottobre, due giorni dopo la promulgazione della nuova legge con un’ordinanza firmata dal presidente Abdul Hamid, data la chiusura del Parlamento per la pandemia in corso. Si è trattato di cinque persone condannate per una violenza di gruppo avvenuta il 17 gennaio 2012 contro una ragazza impiegata in una scuola coranica. In realtà, la rapidità con cui si è proceduto ad eseguire la condanna ha portato diversi diversi osservatori a sollevare dubbi sulla legalità dell’esecuzione, ma – secondo una fonte ufficiale – si è trattato di dare “un esempio per tutti i criminali prima che commettano un simile atto delittuoso”.

Numerose le reazioni contrarie, dall’interno e dall’estero, che hanno sollecitato anzitutto il governo a garantire indagini approfondite e giusti processi invece di attuare azioni vendicative, delle quali restano incerti i contorni giuridici. In molti hanno sottolineato come la possibilità di un’esecuzione dei colpevoli se arrestati e condannati metta ancora più a rischio la vita delle vittime.

Un appello a rivedere il provvedimento è arrivato anche dall’Alto Commissario Onu per i Diritti umani, Michelle Bachelet, che il 15 ottobre, citando espressamente il Bangladesh, ha definito “crudele” e “punizione disumana” la pena capitale, ponendo l’accento su misure preventive per contenere le aggressioni sessuali. “Per quanto si possa essere tentati di imporre pene draconiane a coloro che perseguono questi crimini mostruosi, non dobbiamo consentirci di commettere altre violazioni”, ha sottolineato. Una posizione condivisa anche da Amnesty International.

Con la legislazione in vigore, in realtà esisteva già la possibilità di arrivare all’impiccagione, ma solo per chi si fosse macchiato di violenza di gruppo con la morte della vittima, e non per stupratori individuali. Inoltre, dal 2000 allo scorso aprile, quando è stata eseguita la condanna a morte di Abdul Majed, ex militare e per molti anni con ruoli nel servizio pubblico, condannato per l’assassinio nel 1975 del “padre della patria” Mujibur Rahman, in Bangladesh erano state solo una decina le esecuzioni capitali.