Come canne di bambù

Come canne di bambù

L’esperienza della fragilità, della malattia, del fallimento. Ma anche la convinzione che insieme, come tante piccole canne di bambù che sorreggono un lungo ponte, è possibile realizzare grandi cose

«Padre, in questi ultimi anni ne ho passate veramente tante, ma la mia fede ora è più forte». Le parole di Vet rompono inaspettatamente il silenzio. Sono passati una ventina di minuti da quando abbiamo lasciato suo figlio, Vin, in un “Centro di rieducazione” fuori Phnom Penh. Un posto il cui nome potrebbe anche essere promettente, se non fosse che, quando arrivi, ti ritrovi accolto da un alto muro di cinta ben ricoperto da filo spinato e da un militare in un’uniforme tutt’altro che impeccabile (su una bella pancia da birra!), il cui ufficio è una fatiscente capanna di bambù. Impossibile evitare un forte senso di sconforto. Lo stesso che aveva preso Vet la prima volta che era venuto a portare Vin. Alla fine non ce l’aveva fatta a lasciarlo lì. Stavolta, però, dopo lunghi mesi di inutili tentativi per salvare questo ragazzo, si era dovuto rassegnare.

«Non usate violenza, vero?», aveva chiesto al militare che, madido di sudore, stava cercando di compilare i documenti di accettazione. La stessa domanda l’aveva rivolta più volte al giovane operatore sociale, che ci aveva segnalato questo centro. «No, qui non si usa violenza», era stata la risposta un po’ scocciata e non del tutto convincente del militare.

A rassicurarci, però, era arrivato nel frattempo anche un giovanotto piuttosto distinto, vestito in un completo scuro che, in quel contesto, risultava di incredibile eleganza. Era lo psicologo del Centro. Un po’ troppo giovane, forse, ma vista la penuria di terapeuti in Cambogia, la sua presenza era comunque un fatto positivo. «Il padre? Come si chiama?», aveva chiesto il militare alzando appena lo sguardo dai fogli ormai inzuppati di sudore. «Il padre? Sono io…», aveva risposto Vet. Lo sguardo perplesso dell’uomo parlava da sé; era probabilmente la prima volta che si ritrovava davanti il papà di uno di quei giovani che, se erano arrivati lì, forse era perché un “padre” non lo avevano mai avuto. Mi chiedevo cosa stesse provando Vet in quel momento. E mi interrogavo su come sarebbe stato diverso se quel Centro fosse stato gestito in maniera differente, magari da qualche comunità di recupero come ce ne sono in Italia.

A farci compagnia, intanto, era arrivato anche un altro uomo, malvestito, sulla cinquantina. Dava l’idea di conoscere Vet. «Se avessi lasciato tuo figlio qui con me la volta scorsa, ora sarebbe guarito! – lo rimprovera benevolmente -. Vedi, io ora sto bene e mi hanno detto che fra qualche settimana posso tornare a casa!». Anche lui, per quanto dimesso, era in un qualche modo di conforto: forse qualcosa di buono si poteva sperare anche per Vin.

Concluse tutte le formalità, siamo quindi ripartiti. Ci aspettava un lungo viaggio di ritorno verso Stung Trong, il nostro centro studenti, di cui Vet e sua moglie Chrep sono responsabili. Il viaggio di andata, al mattino, era stato molto difficile: Vet aveva dovuto addirittura legare le mani a Vin per riuscire a metterlo in macchina. La mamma, che si era mostrata forte tutto il tempo, ormai lontana dallo sguardo del figlio, si era rintanata in un cantuccio a piangere di dolore. Io ero alla guida, mentre Vet si era seduto dietro accanto al figlio. Per tutta la prima ora di viaggio Vin aveva pianto ininterrottamente, finché stremato si era finalmente addormentato.

Guidavo e pensavo a Vet e a sua moglie. Mi chiedevo se avessi fatto bene a chieder loro, due anni prima, di venire a lavorare al nostro centro. Ero pervaso dalla sensazione di averli caricati di una croce troppo pesante: vivere con una trentina di adolescenti è già una cosa molto impegnativa, se poi questi sono figli di tuoi fratelli, cugini, amici, che hanno sempre (sempre!) qualcosa da ridire, finanche a dubitare della tua buona fede, e a tutto ciò si aggiunge che il tuo primogenito ha grossi problemi di comportamento, si capisce come tutto questo possa aver seriamente minato la loro autorevolezza di educatori. Ero molto preoccupato. Anche perché Vet, un giorno, mi aveva addirittura confidato di vergognarsi di tornare al villaggio. Ma ora quelle sue parole mi raggiungevano come una luce nuova. La croce non stava schiacciando Vet, anzi, lo stava facendo maturare. «Ora la mia fede è più forte. E quando incontro una difficoltà non la sfuggo più come prima, ma la affronto subito con coraggio», ha continuato.

Mi è venuta in mente Sophoan. Anche lei lavora nel nostro centro a Stung Trong. Anche lei sta lottando contro una situazione di grande disagio e umiliazione. Diverse persone al villaggio la ritengono matta, ma pazza non lo è per niente, si è addirittura laureata in economia. È semplicemente affetta da epilessia, ma per la gente, che in khmer chiama questa malattia “del maiale pazzo”, Sophoan potrebbe essere addirittura contagiosa! Con questo atroce stigma sulla pelle, lei va avanti e con tutte le forze si sta dedicando non solo ai nostri studenti, ma anche ai bambini della zona, giocando e insegnando ogni pomeriggio inglese a più di una cinquantina di loro.

L’epilessia ha iniziato a manifestarsi seriamente in lei circa tre anni fa, con diverse crisi al giorno. Lì è iniziato anche il calvario delle medicine, perché in Cambogia purtroppo non sembra esserci ancora una vera attenzione a questa malattia: Sophoan ha dovuto cambiare terapia diverse volte, e ogni volta sentendosi trattata con grande sufficienza. «Come va?». «Ho ancora delle crisi». «Beh, prova a prendere il doppio della dose quotidiana». Fine della consulenza. E stiamo parlando del migliore ospedale pubblico di Phnom Penh! Se non ci fosse stato Platìn, un giovane psicologo cristiano, a dedicarle un po’ di tempo, forse per Sophoan sarebbe stata troppo dura. Però la mia stima per lei è cresciuta molto in questi anni, spesso mi fermo a osservarla mentre gioca e insegna ai bambini e mi sento rinforzato.

Di tanto in tanto facciamo delle belle chiacchierate: io, per parte mia, cerco di aiutarla a guardare questa sua fragilità anche come una risorsa che le permette di capire le fragilità di tutti quei bimbi, segnati da situazioni famigliari molto difficili; bimbi di “serie B”, se paragonati anche solo a quelli di città, dove possono ricevere tanti aiuti e stimoli per maturare. Cerco anche di aiutarla a leggere questa sua povertà alla luce di quanto Gesù ha detto e vissuto. Lui che si è fatto povero, fino all’umiliazione più profonda, di essere frainteso, rifiutato, rinnegato anche dai suoi, ma che proprio lì, in quel fallimento, ha amato con tutto se stesso, trasformandolo in sorgente di vita piena.

Vet, sua moglie Chrep, Sophoan, Platìn sono come fili intrecciati gli uni con gli altri. Sono sostenuti da qualcuno e a loro volta sostengono altri. Come il lungo ponte di bambù di Kompong Cham, il nostro capoluogo di provincia: migliaia e migliaia di canne, legate l’una all’altra, che insieme consentono il passaggio di centinaia di persone, motorini e perfino macchine. Ponte che ogni anno viene regolarmente ricostruito all’arrivo della stagione secca, per permettere il collegamento con le isole che là costellano il grande fiume Mekong. Ogni canna ne sostiene un’altra, che a sua volta ne regge un’altra ancora. Nessuna può dire: «Ce la faccio da sola!». Insieme, invece, riescono a reggere un peso altrimenti insopportabile.

Ogni uomo è come un bambù, non importa se più o meno bello, se più o meno fragile, perché se legato insieme ad altri allora diventa incredibilmente forte. Di una forza che non ha bisogno di applausi, di mostrarsi, ma che si moltiplica per tutto il ponte e collega mondi altrimenti irraggiungibili. Anche le canne più grosse non ce la farebbero senza quelle più piccole e nascoste.

Proprio quella mattina, suor Teresa, religiosa carmelitana di 97 anni, mi diceva: «Da giovane volevo fare la missionaria, mi entusiasmavo all’idea della missione. Abitavo vicino al Pime di Milano e con le mie amiche ci davamo da fare per diffondere le riviste e fare quanti più abbonamenti possibile. I miei genitori avevano un negozio e allora io ne approfittavo per fare conoscere le missioni ai clienti. Volevo partire anch’io e salvare tutti gli uomini di tutti i continenti. Poi però mi sono detta: Se vado in India… non posso andare in Africa, mentre io voglio aiutare tutti gli uomini! Allora ho capito che questo sarebbe stato possibile come monaca di clausura, perché pregando e offrendo me stessa avrei potuto raggiungere tutti gli uomini ovunque essi si trovino. Ed eccomi qua, dopo settant’anni in monastero, felice di essere missionaria».

Anche suor Teresa è un bambù, nascosto tra gli altri, di quel ponte invisibile ma vero, di cui Vet e ognuno di noi è una parte importante.