AL DI LA’ DEL MEKONG
Il nostro nome fin lassù

Il nostro nome fin lassù

Hieng, uno dei nostri pochi cristiani, non ce l’ha fatta. Tempo fa, almeno in due occasioni, aveva avuto un bel modo per richiamarmi alla mia missione. Mi raccomandava di essere per loro come «ombra fresca» nell’arsura del giorno

 

«Io voglio sapere
se Cristo è veramente risorto
se la Chiesa ha mai creduto
che sia veramente risorto».
D. M. Turoldo

Hieng, uno dei nostri pochi cristiani, non ce l’ha fatta. Malato da tempo, era sempre riuscito a sfuggire alla presa della morte, ma questa volta anche i medici hanno fatto un passo indietro. La moglie e i figli erano con lui. Mi hanno chiamato il giorno prima che spirasse. Con il telefono in mano, il primo pensiero è stato «io non voglio perderlo». Forse perché era uno dei nostri pochi cristiani o perché in questi anni mi ero affezionato a lui, non lo so.

Qualche settimana fa aveva espresso il desiderio di continuare il cammino di catechesi. «Nella mia vita ho incontrato Cristo troppo tardi. Ho perso tempo» – mi diceva. Sapeva che la salute non gli avrebbe concesso molto e desiderava bruciare le tappe, approfondire il discorso su Dio. Quello di Gesù Cristo. Quello della vita eterna. Mosso forse dal presentimento della fine, sentiva il bisogno di correre, «conquistato da Cristo Gesù» (Fil 3,12).

Da parte mia l’avevo rassicurato, ma non ero stato sincero. Non gli avevo detto che nella preghiera personale in questi ultimi mesi mi ero lasciato prendere da una certa rabbia, impaziente di aspettare dal Signore risposte sempre rinviate o aggiustate, ricorrendo a una spicciola mistica del «portare la croce». Il bisogno di un lavoro, di un po’ di salute, di un po’ di giustizia, sono all’ordine del giorno qui, irrinunciabili come l’aria che respiriamo.

Mentre invece, spesso, le pagine della Scrittura nella Santa Messa, mi offrono prospettive astratte, «che cosa devo fare per avere la vita eterna?», «non accumulate tesori in terra dove…». Per non parlare poi di questo tempo di Pasqua con i capitoli 14 – 17 del Vangelo di Giovanni, nei quali Gesù, a giorni alterni, ci parla in modo enigmatico, «ancora un poco e non mi vedrete, un po’ ancora e mi vedrete», «ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre». E via di questo passo, fino a quel «vado a prepararvi un posto» e al mistero stesso della Sua acrobatica ascensione al Cielo! Cerco invece un qui e ora! Perché a volte mi sento sacerdote «di colpevoli illusioni».

Tempo fa, almeno in due occasioni, Hieng aveva avuto un bel modo per richiamarmi alla mia missione. Mi raccomandava di essere per loro come «ombra fresca» nell’arsura del giorno; di saper adombrare le loro vite per rinfrancarne il passo. Solo il salmista è riuscito ad esprimersi con la stessa lirica, quando supplica il Signore, «in Te mi rifugio; mi rifugio all’ombra delle Tue ali finché sia passato il pericolo» (Sal 56,2).

Ebbene, ora, tutto spinge verso un altrove che non è di questo mondo e non è fatto da mani d’uomo. Hieng non compete più a noi. Compete a Gesù. Lo affidiamo a Lui che in questi giorni parla ancora ai suoi discepoli, con il capitolo 17 di Giovanni. Nel quale prega il Padre per i suoi che «sono nel mondo» ma «non del mondo … perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia … e l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro». C’è una potenza in queste parole. Un potenza che adombra la vita di Hieng e si fa Destino. Vita eterna. Lo scorso anno, ricevendo il Battesimo, Gesù gli aveva dato il potere di diventare figlio di Dio. Hieng è davvero morto in Cristo per risorgere con Lui.

Solo una prospettiva così rende giustizia alla sua vita. Altrimenti solo breve, anonima e insignificante. Il mistero nella nostra resurrezione è la più grande manifestazione della giustizia di Dio. Perché restituisce alla nostra vita dignità per sempre. Nella resurrezione dei corpi, infatti, a risorgere non è una massa indistinta e irriconoscibile o un’entità indefinita e senza nome, ma è la persona la cui identità, in vita, si distingue proprio attraverso il corpo. Ché in quanto di carne, offre i contorni del volto, di quel precisissimo volto che ci consente di essere riconosciuti e di riconoscere. Allo stesso modo «lassù», per il mistero della resurrezione della carne, verremo riconosciuti con il nostro volto, il nostro nome, seppure ormai avvolti dalla luce di Dio. Perché se il Suo amore è vero, allora è un amore che non si dispiega genericamente per l’umanità, ma per l’amato. Scrive M. Recalcati, commentando Jacques Lacan, che «“L’amore è sempre amore per il nome”». «Questo «significa che l’amato è amato solo nella sua singolarità irripetibile, per il suo nome proprio, irriproducibile, unico, insostituibile (…) In questo senso non esiste mai amore per l’universale, (…) ma solo amore per un nome particolare, per un essere particolare, per un nome proprio (…) La possibilità unica di unire il nome al corpo in modo indissolubile, di amare e di desiderare quel corpo come se fosse un nome, dunque come se fosse assolutamente insostituibile, fuori serie, e di desiderare quel nome, di sentire quel nome, di pronunciare quel nome (…) come se fosse un corpo» (1). Così fa Dio con noi.

Quella carne destinata alla resurrezione, non attiene tanto alla materialità ma all’identità. Sarà corpo «πνευματικόν» – spirituale, dice San Paolo in 1 Cor 15,44. Traccia che definisce il nostro volto e porta il nostro nome fin lassù. Dobbiamo stare dentro questa Grazia, questa Giustizia ultima, che adombra la nostra vita, dal suo nascere al suo spegnarsi. Così per Hieng, nome singolare, vita irripetibile di un uomo, figlio di Dio, in questa terra cambogiana. Ma se è davvero così, – ci esorta il poeta – «perché non battere le strade / come una follia di sole, / a dire “Cristo è risorto, è risorto”!» (2).

 

1. M. Recalcati, Ritratti del desiderio, Milano 2012, 142 e ss.
2. Per leggere l’intera poesia: https://www.lietocolle.com/2015/10/voglio-sapere-david-maria-turoldo/

 

Foto: Flickr / Ki