Kashmir, il pugno di ferro di Modi

Kashmir, il pugno di ferro di Modi

Resta sottoposta a coprifuoco la regione contesa a maggioranza musulmana di fatto annessa dall’India dei nazionalisti indù il 5 agosto scorso. I generali pachistani finora hanno mostrato moderazione, ma la protesta cova sotto la cenere

 

Resta sotto il pieno controllo delle forze armate indiane la situazione in Kashmir, di fatto posto sotto coprifuoco, con arresti preventivi di attivisti e almeno un centinaio di leader politici locali posti agli arresti domiciliari o in stato di fermo.

Dopo le prime reazioni pubbliche al provvedimento di sostanziale annessione del 5 agosto da parte del governo nazionalista guidato da Narendra Modi, su quello che era considerata dagli imperatori Moghul un “paradiso terrestre” è scesa una cappa di silenzio per il blocco pressoché totale delle comunicazioni cellulari e dati, con giornali e notiziari fortemente censurati.

La reazione da parte di una popolazione al 90 per cento musulmana – che non ha mai accolto del tutto l’annessione allo Stato indiano offerta dal suo sovrano indù all’indipendenza concessa dagli inglesi il 15 agosto 1947 e alla contemporanea separazione tra India e Pakistan su basi religiose – era attesa e difficilmente la situazione di controllo attuale impedirà all’insoddisfazione di emergere prima o poi.

Una possibilità, quella di estese proteste e di un contrasto duro da parte delle forze di sicurezza indiana che potrebbe aprire a uno scenario di conflitto, coinvolgendo il Pakistan che in queste settimane ha cercato di assorbire lo shock di quest’annessione di fatto da parte indiana del Kashmir e della contemporanea divisione di quello che era uno Stato federato con ampia autonomia in due Territori – Kashmir e Ladakh – sotto il controllo diretto di New Delhi.

Il 5 agosto, il governo federale indiano ha annunciato, dopo il voto parlamentare con 370 favorevoli e 70 contrari, la cancellazione degli articoli 370 e 35A della Costituzione, integrando pienamente nel territorio nazionale il Jammu e Kashmir, finora Stato unitario con ampia autonomia, con i suoi 13 milioni di abitanti. Una molteplicità di ragioni hanno probabilmente spinto il governo indiano a prendere questa decisione nell’aria da alcuni mesi, ma che pone il Paese a rischiare un conflitto con il Pakistan, che detiene dal 1947 una parte del Kashmir e che non ha mai accettato l’annessione all’India. Un’annessione peraltro mai riconosciuta dalle Nazioni Unite, che per decenni invece hanno proposto (ma mai imposto) un referendum su autodeterminazione o accesso all’India che New Delhi ha sempre negato.

Molto, senza dubbio, ha giocato la vittoria di maggio del Bharatiya Janata Party e la rielezione del suo leader Narendra Modi a capo del governo. Per i nazionalisti al potere la piena adesione del Kashmir all’India è un passo essenziale sulla via dell’unità nazionale. Non l’ultimo, dato che si sono già concretizzate voci di un’azione futura per portare sotto controllo indiano anche il “Kashmir libero” (Azad Kashmir), cioè la porzione occupata dal Pakistan. Un atto, questo che aprirebbe con ogni probabilità un conflitto con esiti imprevedibili tra due potenze militari convenzionali dotate però anche di armamenti nucleari. Anche una sollevazione dei musulmani e una eventuale repressione aprirebbero con ogni probabilità le porte a un intervento armato pachistano.

A Islamabad, i generali hanno mostrato finora moderazione e il governo guidato da Imran Khan ha chiesto la calma ma, ancor più, il Pakistan si è rivolto alla comunità internazionale affinché intervenga per costringere l’India alla trattativa e per arrivare a una soluzione definitiva e condivisa del “problema-Kashmir”. I veti incrociati di Cina e Russia, rispettivamente alleati di Islamabad e New Delhi hanno però bloccato al Consiglio di Sicurezza Onu ogni risoluzione in questa direzione o di condanna dell’atto unilaterale dell’India.