Rohingya: tensione alta in Myanmar

Rohingya: tensione alta in Myanmar

Gli attacchi di questi giorni di ribelli di etnia Rohingya contro postazioni della polizia in Myanmar e le notizie frammentarie sulla presenza di profughi della stessa etnia che cercano nuove vie di fuga riaccendono i riflettori sulla situazione di questo popolo in Myanmar e Bangladesh, Paesi che papa Francesco visiterà a fine novembre.

Gli attacchi di questi giorni di ribelli di Rohingya contro postazioni della polizia in Myanmar hanno riacceso i riflettori sulla situazione difficile di questa etnia che vive al confine con il Bangladesh. A ciò si aggiungono notizie frammentarie sulla presenza di profughi della stessa etnia che cercano nuove vie di fuga – sempre più rischiose e affidate alle agguerrite tratte – in aree sempre più distanti da quelle originarie, fino all’Europa e all’Australia.

I Rohingya, minoranza di fede musulmana che conta complessivamente poco più di un milione di individui, sono parte consistente della popolazione dello Stato Rakhine, affacciato sul Golfo del Bengala e confinante con il Bangladesh. La loro presenza e ancor più la loro sopravvivenza sono però da alcuni anni messe in discussione da una reazione buddhista incentivata dai militari, che utilizzano lo strumento dell’instabilità etnica in varie regioni del Paese per mantenere il controllo in particolare sulle regioni frontaliere e mettere in difficoltà il governo democratico guidato dalla premio Nobel per la Pace e icona della lotta nonviolenta contro la dittatura, Aung San Suu Kyi.

Sono centinaia di migliaia i Rohingya, a cui spesso si sono dovuti affiancare i musulmani di etnia birmana, che hanno trovato rifugio dal 2012 in campi all’interno del territorio del Myanmar e in parte in Bangladesh, dove da decenni circa 300 mila individui della stessa origine vivono in condizioni precarie, sempre meno accetti alle autorità per il fardello che pongono su un Paese già povero e per il rischio che la loro presenza incentivi un contagio jihadista o accenda contrasti con il paese confinante.

Bangladesh e Myanmar saranno anche le due tappe del viaggio di papa Francesco previsto tra la fine di novembre e i primi giorni di dicembre, anche se non ancora formalizzato. In entrambe le realtà, una minoranza cattolica è da lungo tempo radicata e strutturata, tuttavia non mancano le difficoltà. In Bangladesh per i rapporti sempre complessi con un Islam che risente inevitabilmente dei contraccolpi della situazione internazionale, di infiltrazioni integraliste e del rapporto contrastato tra governo di Dacca e partiti di ispirazione religiosa; in Myanmar per il persistente controllo delle forze armate sulla vita del Paese dopo decenni di potere indiscusso esteso anche sulle varie presenze religiose e per il crescente nazionalismo di ispirazione buddhista che pone sulla difensiva anche le fedi minoritarie.

D’altra parte, se nel Bangladesh musulmano, la Chiesa ha un ruolo di tutto rispetto nello sviluppo culturale e sociale, oltre che essere elemento moderatore tra minoranze e maggioranza bengalese, in Myanmar l’invito avanzato lo scorso maggio dal presidenti Htin Kyaw alla firma dell’avvio dei rapporti diplomatici con la Santa Sede, segnala un clima positivo. In entrambi i casi, la Chiesa da tempo segnala la negatività della situazione dei Rohingya, ai quali viene negata la cittadinanza birmana in quanto “immigrati illegali” e retaggio del potere britannico, mentre il Bangladesh ne disconosce le origini sul proprio territorio e evidenzia una crescente intolleranza verso i profughi.