Le piaghe di Hong Kong

Le piaghe di Hong Kong

Soffre la Chiesa, ma non solo. Economia, politica, società e cultura… Hong Kong vive in bilico fra molte tensioni e fratture. Ma c’è anche chi prova a trasformare la paura del caos in percorsi di armonia

 

L’attuale quartiere di Tai Po era un villaggio di campagna quando i missionari del Pime, lasciata l’isola di Hong Kong e risalita la penisola di Kowloon, nella seconda metà dell’Ottocento, stabilirono il primo contatto con una popolazione di contadini e pescatori. La parrocchia del Cuore Immacolato di Maria e la bella chiesa rialzata, aperta poi nel 1961, si affacciavano a quel tempo sulle risaie. Non più ora. Lungo la spiaggia anche le barchette da pesca sono state sloggiate per fare spazio alle fondamenta dei palazzi che ospitano centinaia di famiglie.

La chiesa di Tai Po è una delle sette a Hong Kong con la porta santa della misericordia. Ma è la prima che si incontra provenendo via terra dalla Cina continentale; e il suo parroco, padre Luigi Bonalumi del Pime, è l’unico “missionario della misericordia” designato da Papa Francesco per Hong Kong e tutta la Cina. «In realtà – tiene subito a precisare – non mi sono dovuto occupare molto di quei particolari peccati per i quali il Papa ha dato ai missionari della misericordia la possibilità di assolvere. Tuttavia, non ho mai passato così tanto tempo in confessionale come quest’anno. La gente ha colto il messaggio e tanti hanno preso questa occasione per riconciliarsi con se stessi e col passato». Anche diversi gruppi di pellegrini provenienti dalla Cina continentale hanno fatto tappa a Tai Po per i riti giubilari prima di proseguire in città, membri sia della Chiesa cosiddetta “ufficiale” che di quella “clandestina”, che non riconosce alcuna autorità al potere politico in materia religiosa.

La situazione di divisione interna dei cattolici cinesi e i difficili rapporti con il governo di Pechino sono tornati di attualità lo scorso 31 luglio, quando il vescovo di Hong Kong, il cardinale John Tong, ha pubblicato sui due settimanali diocesani in inglese e in cinese un lungo articolo che annunciava un prossimo accordo tra la Cina e il Vaticano sulla controversa questione della nomina dei vescovi; una prospettiva rispetto alla quale il vescovo emerito, cardinale Joseph Zen – anche in una conversazione con Mondo e Missione – ha sempre espresso un pesante scetticismo: «Proporranno e approveranno solo vescovi succubi del regime».

Questo contenzioso, che va avanti ormai da quasi settant’anni, contribuisce a scavare un solco permanente e ad alimentare la sfiducia tra le parti. Proprio la riconciliazione e l’unità sembrano sfuggire non solo alla Cina nel suo complesso, ma anche a Hong Kong. C’è una frattura all’interno della società, che discende dalla storia, attraversa la politica e l’economia e minaccia il futuro. Erano poche isole e un entroterra quasi disabitato ciò che per tappe successive l’Inghilterra si prese o ottenne da Pechino nel corso dell’Ottocento. Era un momento di debolezza militare del Paese di Mezzo nei confronti delle potenze coloniali europee. Il controllo britannico avrebbe però determinato, nel corso del Novecento, un diverso sviluppo politico e culturale del territorio divenuto prima un avamposto commerciale e finanziario dell’Occidente; poi una meta per centinaia di migliaia di cinesi della madre patria, sfuggiti alla presa del potere comunista nel 1949; quindi un’isola felice di libertà religiosa e di pensiero, buone scuole, liberismo economico e capitalismo fin troppo sfacciato, ma comunque in grado di fornire per tanti anni occupazione e salari. Nel 1997, tuttavia, Hong Kong è tornata sotto sovranità cinese con la formula “un Paese, due sistemi”, in base alla quale nulla in sostanza sarebbe dovuto cambiare per i successivi cinquant’anni.

«Ora invece la gente è divisa anche all’interno delle famiglie – mi dicono in tanti -. Sono talmente arrabbiati da odiarsi». I più anziani e realisti, insieme a una corrente filogovernativa, seguendo un po’ la mentalità confuciana, sostengono che bisogna stare con Pechino e rispettare le autorità. La maggior parte dei giovani, invece, crede che la possibilità di collaborazione sia definitivamente tramontata con un ennesimo rifiuto a concedere elezioni completamente libere per il Parlamento della città (Legislative Council – Legco), lo scorso 4 settembre, e per la carica di governatore (Chief Executive) l’anno prossimo.

Proprio il voto del 4 settem- bre con la sorprendente elezione nel Parlamento dei giovanissimi leader della cosiddetta “protesta degli ombrelli” di due anni fa – ha dimostrato che le nuove generazioni a Hong Kong chiedono ora una larga autonomia o addirittura l’indipendenza. E buona parte della popolazione le sostiene. Le cose sono cambiate. La Cina si è arricchita. La gente viene dall’interno per turismo, per fare spese e per investire. Mostra più potere d’acquisto di molti residenti. Le fabbriche, da oltre vent’anni, sono passate oltre confine, grazie ai minori costi di produzione. Gli affitti sono divenuti insostenibili e comprare casa per un giovane medio a Hong Kong è impossibile. Pechino poi ha informatori ovunque e ha esteso il controllo sui media, sulla scuola e naturalmente sull’amministrazione e sulla politica. I conclamati Hong Kong Values (i valori di Hong Kong) di autodeterminazione e libera iniziativa appaiono sempre più minacciati.

Eppure, sempre più cittadini e giovani di Hong Kong paiono determinati: «La Cina faccia come crede; noi andiamo avanti per conto nostro».

«Ma gli studenti scenderanno ancora in strada?», chiedo a Lee Cheuk-yan, leader storico del movimento democratico, sindacalista e parlamentare, in una pausa della scorsa campagna elettorale: «Non possiamo saperlo adesso. La protesta purtroppo potrebbe ripresentarsi anche in modo più radicale e violento. Ma ne seguirebbe una più dura repressione».

Preoccupa della Cina il livello di corruzione politica e amministrativa nei confronti della quale si muove con determinazione anche il presidente Xi Jinping. Per i commentatori, avrebbe compreso che sono in pericolo la stabilità del Paese e il potere del Partito comunista. La gente non ha fiducia nella classe dirigente. La subisce. Ma fino a quando? Purtroppo la campagna presidenziale per la stabilità coinvolge anche i diritti umani e la libertà religiosa. Per alcuni, Xi Jinping è il presidente più repressivo dal tempo del massacro degli studenti di Tienanmen nel 1989. Con la lotta alla corruzione si garantisce comunque un certa popolarità, ma i fenomeni di favoritismo e arricchimento personale rimangono numerosi ed evidenti. Hong Kong teme di essere divorata in questo vortice di opportunismo e avidità. Per questo, dice Lee Cheuk-yan, «dobbiamo cambiare la Cina prima che la Cina cambi noi».

Riguardo alla comunità cristiana e in particolare alla Chiesa cattolica – certo piccola se rapportata alle dimensioni geografiche e demografiche della Cina – non sfuggono, a seguito di una breve visita a Hong Kong e Canton, interessanti iniziative di dialogo, prove di riconciliazione e attenzione a ogni forma di emarginazione e povertà. Anzitutto, il già menzionato tentativo di intesa col governo di Pechino per evitare continui contrasti sulla nomina dei vescovi e la gestione interna della Chiesa in Cina. Mentre a livello di società civile colpisce ciò che uomini e donne di Chiesa – cattolici e no, in collaborazione con cittadini comuni – fanno ad esempio per le persone disabili. La Fu Hong Society, nell’ex colonia britannica, ha quasi quattro mila ospiti, ma ogni anno assiste circa cento mila persone.

L’associazione Huiling da Canton si è espansa, in due decenni, a 25 città della Cina, con oltre cento luoghi di aggregazione e di intervento per i disabili.

C’è poi l’immenso lavoro sociale portato avanti dalla Chiesa di Hong Kong soprattutto attraverso la Caritas diocesana. Un esempio è il nuovo progetto già avviato della St. Francis University, la prima Università cattolica di Hong Kong, che nasce con uno scopo preciso e diverso da analoghe istituzioni. La St. Francis, infatti, accoglierà, come altre scuole della Caritas, studenti che hanno tutte le carte in regola e una media rispettabilissima, ma che non possono permettersi di iscriversi alle università più prestigiose e costose. Svilupperà facoltà tecniche, ma preparerà anche operatori sociali e infermieri che a Hong Kong scarseggiano. Il 10% degli iscritti potrà provenire dall’interno della Cina. Sia a Hong Kong che in Cina, si incontrano persone molto motivate, capacissime di operare sul fronte dell’armonia sociale e della riconciliazione. Dovrebbero però poter agire nei luoghi e ai livelli che contano per ridare un’anima al Paese e assicurare alla comunità sociale  e politica una stabilità diversa dalla semplice paura del caos.