Myanmar: la persecuzione dimenticata contro i Kachin

Sono sempre più frequenti gli scontri fra i militari e l’etnia Kachin, che ha ripreso la lotta armata per difendere terre e diritti violati.

Il mondo, distratto dall’enormità della persecuzione contro i musulmani Rohingya e dalla loro fuga ormai quasi completa verso il confinante Bangladesh o altrove, sembra accorgersi con difficoltà di un’altra crisi persistente in Myanmar che coinvolge per lo più le aree frontaliere del Nord e dell’Est.

In particolare, a essere interessate dagli scontri e dalla fuga di migliaia di civili negli ultimi mesi sono le aree abitate dall’etnia Kachin, quella maggiormente cristianizzata tra le decine che formano il complesso mosaico etnico birmano. Nello Stato Kachin dopo la fine di una lunga tregua, sono ripresi gli scontri tra le forze armate regolari e le milizia etnica che per decenni ha cercato di tutelare con le armi identità e risorse dei Kachin davanti alle offensive dei militari impegnati a mantenere il pieno controllo sul paese, in modo diretto – attraverso una dittatura brutale – sino al 2011, poi in difficile coabitazione con i civili. Una situazione che rischia di estendersi a altre aree di grande importanza strategica a ridosso di Thailandia, Cina e India.

L’accordo per un cessate il fuoco nazionale, propiziato dall’intervento diretto della Premio Nobel per la Pace birmana Aung San Suu Kyi e firmato nell’ottobre 2015 da otto etnie, non è stato finora rispettato dalla principale milizia kachin (Kachin Independence Army, Kia) che sotto pressione per le rappresaglie e i bombardamenti sui centri abitati ha deciso di tornare allo scontro armato.

A migliaia i civili sono in fuga dalle aree di nuovi combattimenti tra Kia e i militari birmani. Sono oltre 4.000 i nuovi profughi che vanno a aggiungersi ai 20mila già in fuga dall’inizio dell’anno e ai 90mila profughi nello stesso Stato Kachin e in quello Shan. «Abbiamo ricevuto rapporti che testimoniano come molti civili restino intrappolati in aree interessate dal conflitto – segnala Mark Cutts, responsabile dell’Ufficio Onu per gli affari umanitari -. La nostra maggiore preoccupazione è per la salvezza dei civili, incluse donne incinta, anziani, bambini piccoli e disabili».

Impossibilitata a inviare propri osservatori nelle aree di conflitto, l’Onu non è stata in grado di confermare le notizie di vittime tra i civili, ma ha espresso la preoccupazione per la crisi che va estendendosi nel Nord del Myanmar, a ridosso del confine cinese e indiano, quasi ignorata dalla comunità internazionale.

Se una responsabilità va anche al Kia e agli interessi dei leader Kachin, il crollo del processo di pace e ulteriori difficoltà per il governo rafforzerebbero anzitutto la presa dei militari, ai quali la Costituzione in vigore, da essi scritta nel 2008, assegna il ministero delle Frontiere. Gli interessi degli uomini in divisa sulle ampie risorse nelle aree abitate dalle minoranze hanno accentuato in diverse etnie la convinzione che il governo in carica non sia in grado di garantire loro diritti e benessere. A aggravare la situazione, la Cina, che vendendo armi ai militari birmani protegge i propri investimenti nelle aree confinanti e costringe Aung San Suu Kyi e i suoi sostenitori nella Lega nazionale per la democrazia e nel governo a accettare l’influenza di una potenza che ha sostenuto per un quindicennio le campagne militari contro le minoranze e la repressione contro il movimento nonviolento per la democrazia di cui Aung San Suu Kyi è stata leader indiscussa.

I Kachin, circa 1,6 milioni di individui hanno tra le montagne dell’attuale Myanmar settentrionale le loro terre ancestrali. All’indipendenza dell’ex Birmania dai britannici nel 1948 vennero loro promesse uguaglianza e ampia autonomia, negate con la presa di potere militare nel 1962 che ha spinto i Kachin alla lotta armata.