Fratel Enrico, preghiera e scalpello

Fratel Enrico, preghiera e scalpello

In India dal 1974, Enrico Meregalli, missionario laico del Pime e anima della scuola tecnica di Eluru, intaglia il legno e il cuore dei suoi ragazzi. Iniziando ogni sua giornata in ginocchio

 

«Vanno dal falegname ed è lui a consigliarli: “Questo intaglio io non lo so fare, vai dal barba…”». Che per chi non l’avesse capito sarebbe poi lui: fratel Enrico Meregalli, classe 1948, missionario laico del Pime. A Eluru – la città dello Stato indiano dell’Andhra Pradesh dove vive ormai da più di quarant’anni – lo conoscono tutti; per le sue mani preziose, per il lavoro insegnato a tanti ragazzi alla scuola tecnica di cui è l’anima ormai da tanto tempo, ma soprattutto per il cuore grande di chi ha trovato un tesoro nascosto in questo angolo remoto dell’India.

Sono centocinquanta i ragazzi tra i 15 e i 18 anni in questa scuola rinomata, fondata dal Pime accanto alle altre sue istituzioni educative di Eluru, dove si studia per diventare meccanici, aggiustatori o elettricisti. Dieci gli insegnanti, i laboratori sono i migliori della zona (e infatti ci sono scuole statali che mandano i loro ragazzi per uno stage di quindici giorni, per fare almeno un po’ di pratica). Gli studenti vengono pure da villaggi lontani trenta chilometri per frequentare la scuola, i posti non sono mai abbastanza rispetto alle richieste: «Una volta ottenuto il diploma qui i ragazzi sono molto ricercati – spiega Meregalli -, soprattutto i meccanici e gli autisti, prendono anche la patente a scuola. Molti vanno a lavorare alla Road Transport Corporation, la società degli autobus, che è un posto molto ambito. Altri partono per il Kuwait e i Paesi del Golfo Persico: ci sono tanti nostri ragazzi che oggi lavorano là».

Banchi, lavagne, laboratori dove si impara a saldare o a realizzare un circuito elettrico. Però, a dirla proprio tutta, il regno vero di fratel Enrico è una «zona extraterritoriale»: la sua falegnameria. Non fa parte ufficialmente della scuola tecnica, eppure anche lì ha sempre intorno tanti ragazzi che vengono a imparare un mestiere da questo gigante buono venuto dall’Italia. «Facciamo intarsio e scultura, lavoriamo il tek e anche il nim, che è un altro legno locale molto resistente: neanche le formiche rosse riescono a mangiarselo – racconta Meregalli -. La nostra falegnameria è diventata famosa perché facciamo uno scavo più profondo rispetto agli altri. Lavoriamo per le chiese e le comunità religiose, ma anche per i privati che vengono a chiederci porte e finestre di pregio. Sanno che il nostro è un lavoro di qualità, che il legno è buono. E che non vengono imbrogliati…». Crocifissi, statue dei santi («a volte anche qui in India sfoglio Luoghi dell’Infinito per trovare dei modelli»), e poi balaustre, porte, finestre con lavorazioni splendide.

Va avanti così dal primo dicembre 1974, quando arrivò ad Eluru dalla sua Cinisello Balsamo, parrocchia Sant’Ambrogio. Perché fratel Enrico? Che cosa ti spinse a partire come missionario laico del Pime? «Facevo l’attrezzista alle Pompe Gabbioneta – risponde -. Mi davo anche da fare nel gruppo missionario; ma un giorno ho capito che era troppo poco. Per me è successo come scrive il profeta Geremia riguardo alla sua chiamata: “Mi hai sedotto”. Ho detto al Signore: “Mi hai chiamato tu, non certo io”. Ho capito che dovevo portare a tutti la mia gioia di conoscere Gesù». Da più di quarant’anni lo fa con lo stile semplice del missionario laico: tempo speso con i ragazzi e lavoro manuale in laboratorio.

«Quando sono entrato nel Pime alla casa di Busto Arsizio c’era  padre Severino Crimella – continua il barba – ; lo guardavo e pensavo che anch’io sarei partito per il Brasile. Invece con monsignor Pirovano mi destinarono ad Eluru: la scuola professionale esisteva già, l’aveva fondata fratel Carlo Bertoli che però era già anziano, mi mandarono qui per aiutarlo. A quel tempo la nostra scuola non rilasciava ancora il diploma riconosciuto ufficialmente dallo Stato. Serviva il permesso di New Delhi, che arrivò nel 1981 grazie all’impegno di fratel Francesco Sartori, che è ancora qui con me: è arrivato nel 1966, ha sempre seguito l’amministrazione. Quel riconoscimento fu un passo avanti importante per i ragazzi».

Da cinque anni Meregalli è cittadino indiano: a spingerlo a presentare la domanda è stata la situazione dell’India di oggi, con le difficoltà che si incontrano sempre più spesso nel rinnovo dei visti ai missionari per via della propaganda anti-cristiana dei nazionalisti indù. Anche gli inizi del suo servizio missionario, però, non erano stati per nulla facili: «Quando arrivai non capivo nulla della lingua locale, il telugu – ricorda -. Così ho cominciato a lavorare nell’officina di giorno e poi alla sera studiavo la lingua con un maestro. È stato faticoso: ci sono voluti anni per impararla. Ma quando i ragazzi hanno iniziato a sentire che io straniero parlavo come loro com’erano contenti…».

Già, ma il tesoro di fratel Enrico – che tendenzialmente non chiede mai nulla, eppure dona comunque a piene mani a destra e a sinistra – dove sta? «Sono entrato nel Pime nel 1968 – sorride -. Quanti tra quelli che sono entrati con me in quegli anni, anche più bravi di me, poi hanno lasciato… Io però ho avuto la fortuna di rimanere un ventenne nello spirito, e questo grazie solo alla preghiera. Ce lo dicevano bene i nostri vecchi: “Stai attaccato alla brocca…”. E avevano ragione. Mi chiede se prego anche mentre lavoro? No, e come si fa? Bisogna starci dietro ai ragazzi. Per pregare mi alzo alla mattina presto; e poi, ogni sera, ho l’appuntamento con l’adorazione. Sì, prego e sono felice. Del resto gliel’ho detto che sono un po’ matto, no?».

In quarantatré anni l’India l’ha vista passare dalle porte e dalle finestre del suo laboratorio. Non solo l’India di chi gli commissiona un lavoro, ma anche quella dei poveri, dei lebbrosi che va a trovare con regolarità, dei ragazzi delle scuole medie a cui compra le divise, dei disabili per i quali costruisce (sempre gratis, ovviamente) dei tricicli col materiale di scarto e tutto il suo ingegno. «L’India – confida – mi ha dato la gioia di incontrare tanta gente semplice, povera, ma felice di quel poco che ha. Nessuno qui ti tratta con arroganza: sei accolto da tutti. E l’amicizia rimane. Lo vedo anche dai ragazzi che sono passati dal mio laboratorio: molti, imparato il mestiere, si sono messi in proprio. Ma mi vengono a trovare, c’è riconoscenza e qui sono sempre i benvenuti».

La sua missione è far andare le mani: torna in Italia di rado («non mi piace fare il turista»), ma l’imprinting lombardo gli è rimasto tutto. Che è poi – soprattutto – la sua ricetta per dare dignità a ogni persona che incontra. «Qui a Eluru c’era un ragazzo che faceva il magazziniere e ha avuto un incidente – racconta -.

Si chiama Moses, è rimasto invalido, cammina con il bastone perché ha un chiodo nella gamba. Chiedeva la carità. Gli ho detto: ti pago ma tu vieni da me alla falegnameria per imparare a lavorare. Così ha scoperto di essere portato per l’intaglio, adesso fa dei lavori molto belli. E soprattutto si sente di nuovo un uomo».

Dal 1974 a oggi come ha visto cambiare questo Paese? «L’India si è aperta molto dal punto di vista economico – risponde fratel Enrico -; qualche problema c’è ancora: mancano le fogne, le piogge diventano un pericolo, si diffondono ancora la dengue, il tifo. Meno male che qui alla nostra scuola abbiamo un pozzo molto buono e allora diamo l’acqua anche a duecento famiglie. Però sì, l’India è avanzata molto; ma non altrettanto dal punto di vista spirituale. Vietano la stampa della Bibbia: erano anni che qui aspettavano la traduzione in telugu e adesso ci dicono che è proselitismo… Ma io le ho comprate lo stesso da distribuire».

Donare con semplicità, ma anche con intelligenza. «Quando arrivai a Eluru – ricorda ancora – piantai cento alberi di cocco, adesso sono grandi e danno molti frutti. Ma non sono per me: li regalo ai poveri. Dico loro: “Eccoti 200 noci di cocco; vendile e tieniti il guadagno, ma usalo per iniziare una tua attività e guadagnarti da vivere”. C’è davvero chi lo ha fatto e ora sta in piedi da solo». Ci mancava solo il microcredito col cocco nel tesoro del barba, arrivato in India più di quarant’anni fa, ma che nel cuore è ancora un ragazzino.